Emanuele Felice, Storia economica della felicità, Il Mulino, Bologna 2017, pp. 356, euro

L’idea di felicità motore dello sviluppo

«Proprio la valorizzazione delle relazioni umane può arrivare a configurarsi come nuovo pilastro di un diverso paradigma, pur sempre liberal-democratico se vogliamo, e sicuramente globale, ma adattato a un mondo non più indigente: eguaglianza giuridica, conoscenza utile, diritto alla felicità e, appunto, qualità della vita relazionale (in una simile prospettiva, e nel lungo periodo, l’arricchimento personale finirebbe per essere visto solo come una dimensione «di passaggio»). Tuttavia, anche solo sul piano ideale, teorico, sostituire all’arricchimento personale, le relazioni umane non è impresa agevole» (pp. 297-298)

Emanuele Felice è docente di economia all’Università di Pescara e si è occupato di storia economica dell’Italia, in particolare di dell’Italia del sud.
Questo è un libro che ha un unico punto di innovazione rispetto ai suoi maestri dichiarati Jared Diamond e Yuval Noah Harari: l’idea di felicità è stato un motore di innovazione sociale e sviluppo economico oltre ai tre aspetti già indagati dalla ricerca storico-economica: uguaglianza giuridica, attenzione al sapere pratico, idealizzazione dell’arricchimento.
L’idea di felicità – secondo l’autore, si è evoluta nel corso dei millenni, da felicità ultraterrena o di tipo stoico-individuale fino al 1500 circa, a felicità possibile qui su questa terra. Quando questa idea si è incontrata nell’illuminismo con l’uguaglianza giuridica delle persone, la possibilità di una tecnologia pratica e utile e l’idea che arricchirsi individualmente era possibile (con la Riforma protestante), si è creato il pensiero liberal-democratico che ha portato alla rivoluzione industriale e, passo dopo passo, al mondo attuale, occidentale e globale al tempo stesso.
Nell’introduzione Felice abbozza una sintesi delle tre rivoluzioni della storia umana:
«La prima è quella cognitiva da cui originano i cacciatori-raccoglitori sapiens sapiens (biologicamente uguali a noi) e alla cui esistenza mitizzata si ispira, per certi aspetti, l’immagine del «giardino dell’Eden».
La seconda è la rivoluzione agricola che inaugura la lunga epoca della «valle di lacrime» e nella quale vengono elaborate due concezioni antitetiche di felicità: una terrena, ma individuale e da conseguire per via ascetica (l’atarassia); una ultraterrena, che tuttavia può essere collettiva o meglio sociale (la «Città di Dio»).
La terza è la Rivoluzione industriale, messa in moto dall’Illuminismo, a partire dalla quale si affermano nuovi ideali di felicità: la «Città dell’uomo», trasposizione terrena della Città di Dio, in cui la felicità individuale si fonde in quella collettiva, qui su questa terra; una visione poi degenerata nel terrore utopistico che segnerà in modo indelebile il vissuto del Novecento.
A queste tre rivoluzioni sono dedicati il secondo, terzo e quarto capitolo.
Il racconto però non finisce qui, per fortuna. A partire dalla Rivoluzione industriale e dalle idee illuministe, inizia a delinearsi anche l’edonismo dei «paradisi artificiali», una concezione oggi divenuta egemone trovando riscontro, sul piano economico, nella società del benessere e consumistica, che a ben vedere è lo stadio avanzato di un processo cominciato nel Settecento inglese (le basi economico-tecnologiche erano già state poste dal capitalismo industriale con la sostituzione delle macchine al lavoro umano). Al tempo stesso, grazie al processo tecnologico e al cambiamento concettuale maturati in età illuministica, va prendendo corpo anche un’ulteriore visione della felicità, che a differenza delle altre cerca di coniugare il benessere materiale, la qualità delle relazioni e la libera ricerca di un significato (o di più significati) nella vita: è una concezione che si accompagna a una trasformazione, tuttora in corso e dagli esiti aperti, che come quella edonistica riguarda la condotta umana e il mondo delle idee» (pp. 20-22)
Questa è la tesi di fondo del libro che viene ripresa nella conclusione: la situazione economica attuale può permettere di ricongiungere etica ed economia.
Felice è consapevole che la sfida è aperta a diversi esiti e che la politica conterà molto con le sue scelte, più che l’economia, perché è la politica che detta le regole del vivere comune, è la politica che fa le leggi e recepisce i cambiamenti del costume e della morale, in tutti i campi, soprattutto in economia.
Se si vuole le disuguaglianze si possono ridurre, molte sono le strategie e le vie possibili, molti autori le hanno indicate e proposte, mentre tocca ai politici compiere le scelte per renderle attuali.
Il libro merita una lettura attenta poiché è ricco di molti aspetti poco indagati nei libri di economia ed è un utile strumento che connette mondi culturali che normalmente non si parlano.

Invito alla lettura

Schematizzando possiamo dire che consideriamo la felicità l’insieme di tre elementi: a) libertà […]; b) relazioni sociali; c) «senso della vita» (p. 13)

Di necessità s’impone pertanto un approccio multidisciplinare: mettere cioè in relazione la storia economica con altre discipline sociali, particolarmente quelle che si sono occupate della felicità nel passato con riferimento alla sua dimensione concettuale (più che materiale) e individuale: la filosofia morale, ma per certi aspetti anche l’antropologia e la psicologia (p. 19)
La civiltà agricola si basa sulla disuguaglianza «di diritto», fra le classi sociali, fra uomini e donne. La comune disposizione esistenziale, che sostiene questa disuguaglianza, è quella della rassegnazione: la rinuncia alla felicità «pubblica», per questo mondo: l’accettazione dell’infelicità, come dimensione del vivere sociale, nella speranza di una felicità ultraterrena o tutt’al più, di una serenità individuale avulsa dalle tribolazioni di ogni giorno (p. 24)
Il paradigma dell’ordine liberal-democratico, che permea il mondo industriale, è invece radicalmente diverso: uguaglianza giuridica, conoscenza utile, diritto alla felicità e valorizzazione dell’arricchimento individuale (p. 25)
Con la prima (la rivoluzione scientifica) inizia a imporsi l’idea della conoscenza utile. Con l’Illuminismo, invece, hanno luogo le altre due trasformazioni decisive: si fa strada la tesi dell’uguaglianza giuridica e si afferma un nuovo concetto di felicità (p. 26)
La sfida è quindi aperta. Nel mondo globale, che lo si voglia o meno, si pone il tema di come costruire un’idea di civitas (humana) e di solidarietà, di fratellanza, che prescinde da una visione trascendente; cioè prescinda dall’idea di un premio al di là della vita, come motivazione dell’azione umana verso il bene (senza escluderlo necessariamente) (p. 300)
Per un tale obiettivo ci vuole altro: ci vuole un’etica che ci porti non solo a tollerare il diverso, ma a riconoscerlo e stimarlo, come espressione e valore della grande e variegata comunità umana (pp. 300-301)
La felicità si coltiva contribuendo alla felicità degli altri, vale a dire praticando la virtù (p. 301)
Il punto, però, è che ricercare un comportamento «assoluto» nell’essere umano è probabilmente sbagliato.
E sulla loro contrapposizione si gioca una delle sfide più importanti del nostro tempo […] La prima concezione è incardinata su quel che resta uno dei pilastri dell’ordine liberal-democratico, l’arricchimento personale. Potremmo definirla come segue: la felicità consiste nella capacità di soddisfare tutti i propri bisogni e desideri, di qualunque tipo, grazie alla disponibilità crescente di beni e servizi […] La seconda concezione poggia invece su un altro principio, alternativo al precedente, ma che pure (ne abbiamo parlato) potrebbe incardinarsi sul paradigma liberal-democratico, o almeno nell’ordine ideale del «villaggio globale»: quel che conta e va davvero valorizzato non è l’arricchimento personale, ma la qualità della vita relazionale (pp. 305-306)
Questa seconda ipotesi di felicità si articola in te componenti. La prima è implicita: il soddisfacimento dei bisogni materiali. […] La seconda componente è la qualità delle nostre relazioni con gli altri esseri umani [.] Questa componente relazionale è davvero centrale, anche perché contribuisce alla terza: perseguire un significato nella vita, uno scopo (o più d’uno) cui indirizzare la felicità (p. 307)
L’idea secondo cui la felicità consiste nella massimizzazione del piacere non è incompatibile proposta: purché sia una ricerca del piacere orientata a un significato che sentiamo di poter dare alla vita; e quindi condivisa, sulla base delle relazioni umane di reciprocità, in una cornice che valorizzi le ragioni dell’individuo e il pluralismo morale (p. 308)
Il nostro approccio esprime quindi la convinzione che l’edonismo, da un lato, e la felicità fondata sulle relazioni umane e le virtù civiche, dall’altro, non siano necessariamente antitetici; ma che, al contrario, possano diventare complementari (p.310)
Messa così sembrerebbe una storia a lieto fine. Perché preoccuparsi? […] La preoccupazione più profonda è quindi legata al timore che quella rivoluzione etica che noi crediamo di osservare, in realtà non esista. O che sia talmente lenta, da risultare irrilevante. L’abisso è incolmabile. E anche la felicità non è che un’illusione (pp. 311-313)
Perché tutto ciò si traduca in felicità, e affinché possa durare, è necessario che alla «rivoluzione del piacere», chiamiamola così, si affianchi una «rivoluzione etica». La buona notizia è che, in merito, non mancano segnali positivi: oggi possiamo vantare una coscienza etica «migliore» e più inclusiva, sotto molti aspetti, più sensibile ai diritti umani, rispetto a tutte le epoche precedenti. […] Non sono sfide facili. Superarle o meno dipende, più che dall’economia, dalla politica, con le regole e le istituzioni che riesce a definire: giudizio etico, individuale, e agire politico, collettivo, appaiono quindi inscindibili – come in fondo pensavano gli stoici, in un altro mondo – e possono rafforzarsi o indebolirsi a vicenda (pp. 344-345)
L’esito dipende da noi. Oggi più che mai l’umanità è artefice del proprio destino, ovvero della sua felicità (p. 345)