L'identità è relazione

 

Guido Bertagna, Adolfo Ceretti, Claudia Mazzucato (ed.), Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto, Il Saggiatore, Milano 2015, euro 22

Un incontro che ci interroga

 

Leggere questo libro non è affatto facile, per quanto lo raccomandi per la sua profonda umanità ad ampio raggio che lo abita. Non è facile perché richiede umiltà, ascolto e capacità di accogliere novità sia nella esperienza e riflessione sulla giustizia riparativa, sia nel riprendere la riflessione suo un periodo importante della storia d’Italia che ancora non ha trovato una memoria condivisa e condivisibile.

E’ il racconto di un incontro durato alcuni anni tra le vittime e i responsabili della lotta armata che ha segnato le vite di coloro che c’erano e che è stata quasi rimossa dalla coscienza collettiva, grazie anche alla tendenza a vivere solo il presente e a non conoscere ed approfondire la storia da dove veniamo: cosa è veramente successo, quali motivazioni hanno spinto persone a compiere gesti violenti, che li hanno resi dis-umani, come avevano disumanizzato – riducendoli a ruoli - le vittime della loro violenza.

E’ un libro che suscita profonde emozioni e che richiede quindi maturità e riflessione attenta e umile. Gli stessi protagonisti non hanno tutte le risposte e quindi occorre astensione dal giudizio prematuro per poter prima accogliere il racconto di questa esperienza per quello che è, appunto: un’esperienza, e poi, in un secondo tempo, potersi formare una propria riflessione su questa fragile esperienza di verità umana che, proprio per questo, ci interroga in tutte quelle sfaccettature che si intuiscono oltre la parola e che, a volte, rimangono solo nel cuore dei protagonisti dell’incontro del Gruppo.

Parto dall’indice perché in questo caso, più che in altri, ci aiuta a entrare in questo libro.

La prima parte illustra il percorso fatto e le motivazioni del suo farsi nel tempo, il richiamo all’esperienza della Commissione per la verità e la riconciliazione in Sudafrica, prima di tutto, come un faro che ha guidato una esperienza certamente diversa ma significativa, incontri occasionali che diventano domanda di gruppo autogestito di persone che vogliono incontrarsi nelle mille difficoltà della storia violenta che le ha accomunate, volontariamente o involontariamente.

La seconda parte, intitolata VOCI, riporta a vario titolo le riflessioni dei vari protagonisti dell’incontro, rispettando per ognuno la sua esigenza di anonimato o di farsi conoscere.

Ho praticamente cominciato da questa parte la mia lettura, perché non volevo che troppe parole “riflessive” mi condizionassero la lettura. E’ per la parte più interessante del volume perché è fatta in presa diretta su quello che è successo nel cuore e nella mente dei partecipanti. Qui occorre, più che in altre parti del libro, entrare in punta di piedi, in rispettoso silenzio del travagli di tutti i partecipanti al Gruppo.

La terza parte, “Approfondimenti scientifici e metodologici”, mette a disposizione tutta una serie di analisi giuridiche, bibliche, di memoria storica, che hanno sostenuto l’impegno di tutti i partecipanti, e non solo dei tre curatori nella loro funzione di mediatori del Gruppo, a condividere le proprie memorie, emozioni, pensieri sulla lotta armata, sul sistema giudiziario e penale, sulla storia dell’Italia, e su molto altro ancora, soprattutto sul desiderio comune di ritrovare una umanità perduta che permettesse, a quanti vi hanno partecipato, di potersi riconoscere degni di un dialogo vero e di verità.

Lo scopo dichiarato di questo racconto è quello di voler condividere con altri il dialogo iniziato, per allargarsi alla società civile e, credo, anche allo Stato per una memoria possibilmente non faziosa di quella tragica esperienza che ancora vede molti misteri che impediscono una verità condivisa.

Il libro è corredato anche da un e-book, al momento non ancora disponibile sul sito dell’editore, con altri materiali significativi che non hanno potuto trovar spazio nel testo cartaceo pubblicato.

Un grazie di cuore a tutti i partecipanti al Gruppo e che meritano il nostro plauso per il coraggio, la costanza, l’umiltà e la fatica di questo percorso che ci donano insieme.

 

Invito alla lettura

Quanta verità siamo disposti ad ascoltare? (p. 185)

Le parole fragili e delicate sono intrecciate al silenzio, la loro fragilità rimanda alla fragilità del silenzio. Per ascoltare occorre tacere. (p. 201)

Nell’attraversamento della «resa» ho incontrato un’umanità prima negata. E, se ha senso farci aiutare da un minimo di ironia, sono convinta che noi tutti saremmo stati peggio di coloro che volevamo combattere. Noi, che per la giustizia, ci siamo fatti giudici senza un giusto processo. Si misura anche così, la stupidità. (p. 154)

Le aule giudiziarie in certi casi hanno già dato tutto quello che potevano dare. E allora noi abbiamo una missione. La società non sa, forse non vuole sapere. Ma noi abbiamo bisogno della parola di tutti. Abbiamo bisogno di una storia che smetta di scriversi con le stesse parole. E’ difficile, ma dobbiamo dimostrare di essere stati in grado di dialogare con l’altro. Dobbiamo custodire una memoria via per andare oltre l’incubo dei mostri e ritrovare le persone. (p. 49)

La memoria di quegli anni è da incubi notturni, e io non volevo andare a dormire. (p. 50)

Se penso a noi, alla nostra vicenda, la percepisco soprattutto come una lotta per l’identità. Noi e la nostra esperienza, non siamo mai stati riconosciuti nella nostra vera identità. (p. 65)

Se devo spiegare perché ho ucciso, è come se uccidessi per la seconda volta. E’ un dramma: non c’è un perché. (p. 80)

Noi pensavamo che la violenza dello Stato e la violenza della rivoluzione fossero distinte. In realtà, se scegli il terreno della violenza, diventi simmetrico a chi ha il monopolio della violenza, nel caso specifico lo Stato. Non fai altro che riprodurre ciò che tu vorresti combattere. E’ un discorso di simmetria: pensi di poter essere il nemico di quell’altro, in realtà ne stai diventando il figlio. (p. 83)

Occorre essere consapevoli che un male ieri non diventa un bene oggi. Non si può pretendere di appartenere alle categorie di ex assassini o ex vittime. Si rimane per sempre tali, e radicalmente diversi, e questo pur rispettando la dignità umana di chi ha commesso il crimine. (p. 88)

Io detesto che mi venga attribuito anche un solo pensiero che sia legato alla bontà: l’amore per me non è legato alla bontà, è legato alla giustizia. (p. 91)

L’indicibile per me è che tanto le vittime quanto gli ex sono comunità dolenti, accomunate, per quanto possa scandalizzare e abbia scandalizzato questa convinzione, dalla stessa sindrome da stress post-traumatico, dal suo cospetto con la morte, dagli incubi di notte che ti assalgono, dai volti di chi è morto e dei suoi congiunti, da quegli spari, da quelle coltellate, da quel sangue. Umanità sfibrate che marciano faticosamente verso l’incontro,, come una luce in fondo a un tunnel, ma che basta un incubo notturno per fare regredire all’improvviso e dover ricominciare la marcia da un passo indietro, come a volte un sorriso a fare due passi in avanti; è che dobbiamo essere più indulgenti con noi stessi e tra di noi, mettere in conto come inevitabili gli stop and go, gli scleri, le risate nevrotiche, le cadute in depressione, gli sfoghi sanguigni, e perdonarci l’un l’altro in anticipo… (p. 105)

Ero convinto di combattere la guerra che avrebbe annullato tutte le altre guerre. (p. 108)

«E se avessi sbagliato tutto? Se mi fossi sbagliato su tutto?» E’ solo quando siamo senza scampo, quando non c’è più possibilità di riparare, di rimettere le cose a posto, solo quando c’è la percezione profonda che potrei aver sbagliato tutto, solo lì c’è la possibilità della speranza. E’ una convivenza paradossale, ma fecondissima. (p. 115)

Il direttore del carcere mia ha detto: «Sei un illuso. Non capisci che se non gli fregava di Moro non gli frega di te?». E io ho detto: «Voi siete un potere democratico, vi deve fregare di me». (p. 126)

Ogni volta che vi ascolto parlare penso a un dramma nel dramma, questo terribile e drammatico spreco di risorse umane che questa stagione ha portato. Non soltanto lo spreco di risorse umane di coloro che sono stati uccisi e non ci sono più, ma anche le vostre, voi. Sprecare intelligenze come le vostre rimane una delle ferite più grandi di questa storia. (p. 152)

Se mio papà fosse ancora qui, sono sicuro che sarebbe qui con noi. (p. 159)

Sono una figlia. Ci sono altri figli? Ho conosciuto il figlio di una vittima che mi ha detto: facciamo quattro chiacchiere, noi che stiamo da due parti della barricata. Io non vedo barricate e vorrei abbatterle insieme agli altri figli di chi ha sofferto. Vorrei abbatterle sulle basi di un’innocenza. (p. 172)

Dobbiamo confrontare le due verità – la vostra, di ex, e la nostra, di vittime, E’ l’unico modo per arrivare a comprenderci tutti come vittime. Noi della violenza, voi della storia. (p. 182)

Ma cosa dirà la gente alle vittime quando le vede vicino a noi? Loro rischiano ben più di noi... (p. 190)

Siamo tornati ad essere italiani qualsiasi. Oggi siamo mamme, papà, spesso ormai nonni. Sediamoci a un tavolo e parliamoci guardandoci negli occhi. Siamo ancora in tempo, siamo ancora in tempo. (p. 193)

Lo slancio ideale degli ex terroristi, dov’è andato a finire? C’era un desiderio di giustizia nei giovani di quegli anni, che non si deve smarrire. E bisogna trovare dei modi che rendano possibile l’incontro. Ora c’è molta paura, degli immigrati, degli islamici… paura del disordine, ma il disordine esprime qualcosa che va ascoltato. La vostra iniziativa dovrebbe poter smuovere la società. C’è un mistero di speranza che ci porta avanti. Cardinale Carlo Maria Martini (p. 197)

Cacciari - Sul concetto di relazione. Le coppie di opposti identità-alterità

CACCIARI

 

 

L'identità è relazione

 

Massimo Cacciari, filosofo, ha tenuto queste considerazioni sulla relazione a un seminario promosso dal'Associazione Asia (www.asia.it) le cui registrazioni video sono acquistabili presso shop.asia.it con una modica spesa per 760 minuti di registrazione.

Proverò a indicare alcune riflessioni significative, per me, sulla natura della relazione e il suo rapporto con identità e alterità.

Le riflessioni sono a carattere filosofico e concettuale, proverò a renderle sufficentemente comprensibili, abbiate dunque fiducia.

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Cacciari parte dalla semplice ma feconda affermazione: non possiamo cogliere nulla in modo immediato, ma lo possiamo fare solo tramite una mediazione.

Questo qualcosa che ci sembra se stesso è determinato. Il qualcosa è l'altro dell'altro. L'uno e l'altro sono entrambi "altro".

Niente di immediato lo pensiamo come in sé, ma possiamo pensarlo così oppure come altro in sé. Ogni ente è in movimento e non esiste un ente immobile.

In questo modo l'ente esce da sé e si contraddice perché è in movimento, diviene (Hegel). 

Essere e nulla nel divenire passano continuamente l'uno nell'altro. (Qui aggiungo una mia riflessione che sta altrove in questo sito: siamo ancora una volta allo ying e yang e al loro rapporto necessario yng_yang, alla teoria degli opposti di Romano Guardini)

Nel momento in cui nomino un ente/qualcosa lo medio almeno tramite il linguaggio.

Ogni ente ha una ousia, termine greco che significa: presenza, verità, apparire. Dunuqe concepiamo l'ente come finito, secondo il suo fine.

L'identità è in se stessa non identità. L'identità è mediazione e contraddizione.

Il logos ha due principi: 

- principio di identità: A=A e non può essere altro che A

- principio di non contraddizione: non possiamo predicare gli opposti sotto il medesimo riguardo e il medesimo tempo


Il principio di identità tuttavia è meno banale di quello che appare a prima vista (e qui dobbiamo stare attenti alla novità che Cacciari ci mostra)

A è IM-MEDIATO, cioè se dico A e nient'altro lo dico in modo immediato, non mediato, ma di questa A non posso di fatto dire nulla, è solo un puro suono, perché non c'è alcun predicato che la determini

A=A è un processo che contraddice l'immediata predicazione di A (di cui appena sopra) perché predicando l'uguaglianza di A con se stessa, non faccio più una predicazione immediata (senza mediazione) ma la medio tramite il verbo della predicazione:  é, A è uguale ad A. Il secondo A non è più lo stesso del primo A, perché è un suo predicato, che dice l'uguaglianza di A con se stesso.

 

Per quanto riguarda il principio di non contraddizione, anche chi lo nega parla in modo corretto, perché ritiene l'ente come divenire. Il loro errore è che affermano che l'ente è solo potenza (in greco: dunamei), mentre l'ente è anche atto, cioè tende a realizzare la propria fomra /identità (in greco: entelechia, telos). 

Per questo l'atto precede l'ente.

 

In A=A il secondo A è l'ousia di A, in quanto ogni ente non può che tendere alla sua identità, e abbiamo così l'inquietudine del qualcosa.

In termini teologici se diciamo che A è UNO dico che è e non è più UNO

Quando UNO viene predicato come uno esce da sé e diventa MOLTI. Per questo la relazione di UNO con i MOLTI è necessaria, poiché i Molti stanno giù in UNO.

Gli uomini vivono per raggiungere la loro identità, contraddicendo così ogni immediatezza. Quando vogliamo definire un ente dobbiamo per forza parlare di tutto ciò che non è quell'ente: non A, quindi non-A è immanente ad A. A e non-A sono necessariamente in relazione tra di loro.

Quando UNO non è predicato abbiamo l'ineffabile, ciò di cui non possiamo parlare dandogli una determinazione (Plotino e Parmenide). 

La nostra identità è innegabile, ma ineffabile (che rischia di essere un predicato e porta la mistica a una contraddizione).

Dunque l'identità la posso esprimere solo come relazione

Questa è la forza del pensiero che sta esponendo Cacciari.

Non c'è una identità im-mediata.

In Platone l'ente ha una dimensione di singolarità che non è assoluta, ma immediata. La singolarità dell'ente è inattingibile, ineffabile.

Per questo ogni ente non si può mai possedere.

In ogni scienza bisogna essere co-scienti, consapevoli della singolarità dell'ente, altrimenti ogni scienza diventa totalitaria e violenta la singolarità di ogni ente.

La singolarità dell'ente non è catturabile dalla potenza del logos-scienza.

Ogni logos consapevole è consapevole del proprio limite rispetto alla singolarità dell'ente che è ineffabile. Questo è contro la pretesa della filosofia idealistica di catturare l'ente.

Identità è nome di relazione

La ricerca è ricerca d'identità e tuttavia è infinita in quanto la singolarità dell'ente è inattingibile (im-mediata è diverso da as-soluto). L'identità non potrà mai significare uguaglianza

[...]

Telos sono i passaggi con cui ci si avvicina alla conoscenza di sé che è l'inevitabile fallimento della conoscenza di sé.

a-letheia (verità, svelamento) ha in sé la latenza.

logos ha una consonanza con col-ligere dalla radice leg che significa raccogliere, collocare insieme, armonizzare, nel nostro linguaggio il logos custodisce le differenze. 

logos indica una originaria relazione, ogni termine è sempre in relazione.

Il logos manifesta il comune nella differenza degli enti, assume in sé  la differenza, ricerca del comune che non diventa mai IDEM, il medesimo.

Ci sono tante lingue perché non c'è un logos che può definire. 

Le parole non sono separate, non possono essere separate, dalla verità della cosa.

Le diverse lingue ricercano la verità, e in questo senso sono comuni. 

La relazione tra le lingue è necessaria. Nella traduzione faccio l'esperienza del limite del mio linguaggio e allo stesso tempo spingerò la mia lingua ad esprimere  la diversità dell'altra lingua. Ne consegue l'arricchimento delle lingue

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Queste sintetiche riflessioni ci aprono uno spazio non banale sulla convivenza civile, sul nostro stare al mondo, sulla scienza e il suo ruolo, sul rapporto tra ragione e scienza. 

Ancora un volta Cacciari ci aiuta a pensare, perché la parola pensa.

Se qualcuno vuole approfondire la riflessione può scrivermi a:

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Aristide Fumagalli, L'eco dello Spirito. Teologia della coscienza morale, Queriniana, Brescia 2012.

Fumagalli_Copertina

 

L'autore è professore di teologia morale presso il Seminario arcivescovile di Milano a Venegono. Il volume si presenta come una sintetica  e approfondita disamina del problema della coscienza in teologia morale con una propsta originale e convincente.

Per vedere l'indice cliccare qui

La prima parte fa il punto della riflessione attuale rispetto a come viene considerata la coscienza.

La seconda parte, storica, parte dalla testimonianza della Scrittura e in particolare dagli scritti di Paolo. Fumagalli ripercorre la riflessione sulla coscienza analizzando due esempi significativi: Agostino e Tommaso d'Aquino, il primo che fa prevalere l'interpretazione della coscienza come voce di Dio, il secondo come voce dell'uomo. L'autore poi si sofferma su Lutero e Alfondo Maria de Liguori, mettendoli sotto l'insegna della riduzione. Si sofferma sulla proposta di Newman eviidenziandone gli aspetti positivi. Per ultimo presenta la proposta del magistero e di alcuni autori post-conciliari: Demmer, con la sua impostazione trascendentale-ermeneutica, e Angelini, con la sua proposta fenomenologica.

La terza parte è la proposta dell'autore di considerare la coscienza come l'eco della voce dello Spirito nel cuore dell'uomo. Fumagalli utilizza la metafora dell'eco per mostrare come la coscienza espressione della relazione tra Dio e l'uomo, e non semplicemente la voce dell'uno o dell'altro. Egli mostra poi come tutti i problemmi che nel corso dei secoli sono stati affrontati dalla riflessione possno essere inquadrati in questa prospettiva e trovare una sistemazione sufficemente unitaria e senza contraddizioni concettuali.

Il criterio della coscienza per valutare gli atti dell'uomo è l'amore di Gesù.

Fortunatamente l'autore ha sintetizzato la sua proposta in un articolo pubblicato sulla Rivista del Clero del maggio 2012 che metto a disposizione in formato WORD (clicca qui).

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F. Manzi - G. C. Pagazzi, L'"habitus" e la costellazione dello stile cristiano, Teologia, 247-270.

Questo interessante articolo riguarda la questione dell'abito. L'intenzione di rivitalizzare questa categoria della teologia della grazia è esplicito nella coppia di autori, professori della Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale.

 

«L'intento di questo articolo è modesto: cerca di riattivare l'attenzione alla categoria di habitus - tipica del trattato classico De gratia -, che di fatto riconosce dignità antropologica e teologica all'ovvio gesto del "vestire" e al suo molteplice significato. A questo scopo s'intende riprendere nell'orizzonte attuale del senso il processo biblico di costruzione del significato di vestito/abito. Al dire di Angelo Bertuletti, siffatto modo di procedere realizzerebbe il corretto e proficuo rapporto tra esegesi e teologia sistematica. Si tratat comunque di un esperiemnto, tentato sul crinale che congiunge e distingue la riflessione di Tommaso d'Aquino e alcune istanze del pensiero contemporaneo».

Se l'inteno è modesto, il risultato è significativo.

Il primo paragrafo: Il vestito e l'identità di Cristo e del discepolo, partendo dai vestiti di Genesi e fino ai vestiti del vangelo di Marco (qui viene ripreso un contribbuto di don Roberto Vignolo, La simbolica delle vesti, una cifra sintetica del vangelo di Marco, Parola Spirito e Vita, 60 (2009) 85-125), per accennare alle vesti dell'Apocalisse, si ripercorre la simbolica del vestito nella Scrittura. Nella Bibbia «il vestito concorre al processo d'identificazione, esprimendo anche lo stato d'animo di chi lo indossa o ne ha a che fare».

Il secondo paragrafo: Dal vestito all'"habitus", verte sulla «portata rivelativa del vestito in rapporto all'identità del cristiano», che la chiesa ha colto fin dalle origini e l'ha custodita enlla liturgia battesimale con il simbolo della vesta bianca. Infatti «essa non ha tanto una funzione didascalica, quanto piuttosto performativa in ordine all'eficacia sacramentale e all'esperienza della grazia». Svestirsi e rivestirsi è tipico anche dei monaci.

Il terzo paragrafo: L'"habitus", l'abitudine e l'abitazione, si snoda in due punti che affrontano l'abito in Tommaso d'Aquino e in Merleau Ponty, mostrandone le assonanze nella trattazione. Qui riprendo in particolare ciò che mi interessa sottolineare.

In Tommaso (STh I-II, 49-70), secondo uno studio di Santiago Maria Ramirez, uno degli attuali esperti di Tommaso, mostra come dal verbo habere non deriva solo habitus nel doppio senso di vestito e di abitudine, ma anche habitio (l'avere), habitatio e habitaculum (abitazione), habitudo (costituzione del corpo e relazione) nonché habilitas (attitudine, disposizione e abilità). Secondo Tommaso la questione dellp'habitus farebbe parte dei «principi intrinseci dell'azione»; da qui l'importanza della trattazione dell'abito, ritenuta da Tommaso necessaria per una corretta fenomenologia dell'azione. Tommaso riprende la lezione di Aristole secondo il quale etica deriva più da abitudine, abitare, coabitare, che dalla nozione di norma. «L'etica fa si riferimento allal norma, ma in quanto scaturita dall'abitudine di abitare insieme. E' etico il conmportamento che abitua ad abitare insieme, facendone il proprio costume, il proprio vestito«. Per Tommaso, quindi, «l'habitus sarebbe l'esito della ripetizione liberamente decisa di un'azione». L'abito aiuta la formazione di un agire che diventa agevolezza ed agilità (come gli esercizi fisici abilitano a un gesto atletico preciso, agile e agevole per chi lo compie).  «Comprendiamo in che senso l'abito sia l'accordo di potenza e mondo, il risultato della loro orginaria e mutua mediazione, ossia l'intesa fra la capacità della potenza di abituarsi al mondo e la capacità del mondo d'abituare la potenza. E se potenza e abito sono i principi intrinseci dell'azione, l'azione è l'abituarsi reciproco di potenza e mondo».

In Merleau Ponty (Fenomenologia della percezione), «si può notare la similutudiine tra ciò che Tommaso indica come principi intrinseci dell'azione umana, ovvero la potenza e l'abito, e la fenomenologia del movimento corporeo, che - secondo Merleau Ponty - sarebbe luogo speciale di affioramento dell'identità umana» Potenza e habitus/abitudine sono appunto i fuochi intorno a cui orbita la riflessione del filosofo francese sul carattere originariamente corporeo della cosceinza, reciproco contatto di io e mondo: originariamente la coscienza non è un "io penso che", ma un "io posso"». Più avanti gli autori sostengono che «agendo, l'uomo pratica il mondo, riconoscendo il carattere praticabile del mondo stesso e avvalendosi di esso. Più che ogni altro aspetto dell'azione umana, l'habitus mette in mostra la familiarità di io e mondo, nella misura in cui i gesti dell'io diventano di casa nel mondo e il mondo è di casa nell'io, conferendo alle azioni dell'io quella scioltezza e disinvoltura tipiche delle azioni domestiche».

Il quarto paragrafo: L'habitus e il vestito,  affronta tra aspetti dell'abito: la sua funzione identitaria, la sua funzione di difesa e il suo costituire uno stile.

Il quinto paragrafo: L'habitus e la grazia, ripercorre brevemente la riflessione sulal grazia come habitus. Raccolgiendo le riflessioni di Tommaso e Merleau Ponty, gli autori affermano che «la grazia come abitus identifica chi è raggiunto da essa, abituadolo a sentire (e questo sewntire è grazia!) la familiarità di io e mondo, persuadendolo ad agire con fede, speranza e carità, perfino quando tale familiarità non risulta evidente, anzi è distorta da tratti ostili e pericoli mortali».

Ringrazio gli autori per la riflessione e per la precisa disanima di un tema significativo: quello dell'agire dell'uomo, che è relazione con il mondo e con gli altri, oltre che con la sua origine: Dio.

 

 

L'immagine rappresenta il mosaico realizzato dal Centro Aletti di Roma nella Sacrestia della Cattedrale di Santa Maria Reale dell’Almudena Madrid - Spagna

Alva Noë, Perché non siamo il nostro cervello. Una teoria radicale della coscienza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010 (originale 2009), euro 22,00.

 

L’autore insegna filosofia all’Università della California, Berkeley. E’ interessante leggere di filosofia dove invece oggi ci sono solo neuroscienziati che discutono in quale parte del cervello sia presente questa o quell’altra capacità mentale dell’uomo. Già dall’indice sintetico (leggi indice) si vede che il problema della mente, per l’autore, sia quello della relazione del corpo, e quindi anche del cervello, con l’ambiente e le persone in cui siamo immersi fin dalla nascita. A partire da alcune evidenze scientifiche,  per esempio una donna che ha una capacità mentale  localizzata in una parte del cervello che a lei invece manca, l’autore vuole mostrare come non è nel cervello che si crea  la mente, ma che questa è il risultato dell’interazione tra ciò che sta dentro con ciò che sta al di fuori della persona.

Leggi tutto: La coscienza è relazionale - Noë

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