Thomas Piketty, Capitale e ideologia. La nave di Teseo, Milano 2020, euro 25,00, 1184 pagine + Indice generale (11 pp).
Secondo me la proposta di Piketty è un tassello utile nel programma di riforme proposto da papa Francesco nell’enciclica “Fratelli tutti”, in cui auspica un cambiamento anche delle strutture giuridiche: «Vorrei insistere sul fatto che «dare a ciascuno il suo, secondo la definizione classica di giustizia, significa che nessun individuo o gruppo umano si può considerare onnipotente, autorizzato a calpestare la dignità e i diritti delle altre persone singole o dei gruppi sociali. La distribuzione di fatto del potere – politico, economico, militare, tecnologico e così via – tra una pluralità di soggetti e la creazione di un sistema giuridico di regolamentazione delle rivendicazioni e degli interessi, realizza la limitazione del potere. Oggi il panorama mondiale ci presenta, tuttavia, molti falsi diritti, e – nello stesso tempo – ampi settori senza protezione, vittime piuttosto di un cattivo esercizio del potere» (Fratelli tutti, n. 171)
«In sintesi: il modello di socialismo partecipativo che si propone è fondato su due principi essenziali che mirano a superare l’attuale sistema della proprietà privata: da un lato, la proprietà sociale e la condivisione dei diritti di voto nelle imprese; dall’altro, la proprietà temporanea e la circolazione del capitale. Combinando i due principi, si istituirebbe un sistema di proprietà molto diverso dal capitalismo privato come lo conosciamo oggi, e che costituirebbe un vero e proprio superamento del capitalismo stesso.
Si tratta di proposte che potrebbero sembrare radicali, ma in realtà sono in linea con un’evoluzione iniziata alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX, per quanto riguarda sia la condivisione del potere nelle imprese, sia l’aumento della tassazione progressiva. Questa dinamica evolutiva si è interrotta negli ultimi decenni, da un lato perché la socialdemocrazia non è stata in grado di rinnovare e internazionalizzare il suo progetto; dall’altro perché il drammatico fallimento del comunismo di stile sovietico ha inaugurato in tutto il mondo, a partire dagli anni ottanta e novanta del secolo scorso, una fase di deregolamentazione incontrollata e di rinuncia a ogni ambizione egualitaria (della quale la Russia attuale e i suoi oligarchi costituiscono senza dubbio il caso più estremo). L’abilità con cui i promotori della rivoluzione conservatrice e neoproprietarista degli anni ottanta e i sostenitori della linea nazionalista e anti-immigrazione sono riusciti a colmare questo vuoto politico-ideologico hanno fatto il resto.
Tuttavia, dopo la crisi del 2008 ha preso forma una nuova tendenza di pensiero, con una moltiplicazione dei dibattiti e delle proposte di nuove forme di condivisione del potere e di tassazione progressiva. L’ideologia neoproprietarista è ancora molto viva, così come la tentazione di ricadere nel nativismo, ma si percepiscono nettamente i segnali di un’evoluzione. Gli elementi qui descritti non fanno che inscriversi in questa nuova tendenza, tentando d’inquadrarla in una prospettiva storica più generale». (pp. 1117-1118)
Emanuele Felice, Storia economica della felicità, Il Mulino, Bologna 2017, pp. 356, euro
L’idea di felicità motore dello sviluppo
«Proprio la valorizzazione delle relazioni umane può arrivare a configurarsi come nuovo pilastro di un diverso paradigma, pur sempre liberal-democratico se vogliamo, e sicuramente globale, ma adattato a un mondo non più indigente: eguaglianza giuridica, conoscenza utile, diritto alla felicità e, appunto, qualità della vita relazionale (in una simile prospettiva, e nel lungo periodo, l’arricchimento personale finirebbe per essere visto solo come una dimensione «di passaggio»). Tuttavia, anche solo sul piano ideale, teorico, sostituire all’arricchimento personale, le relazioni umane non è impresa agevole» (pp. 297-298)
Emanuele Felice è docente di economia all’Università di Pescara e si è occupato di storia economica dell’Italia, in particolare di dell’Italia del sud.
Questo è un libro che ha un unico punto di innovazione rispetto ai suoi maestri dichiarati Jared Diamond e Yuval Noah Harari: l’idea di felicità è stato un motore di innovazione sociale e sviluppo economico oltre ai tre aspetti già indagati dalla ricerca storico-economica: uguaglianza giuridica, attenzione al sapere pratico, idealizzazione dell’arricchimento.
L’idea di felicità – secondo l’autore, si è evoluta nel corso dei millenni, da felicità ultraterrena o di tipo stoico-individuale fino al 1500 circa, a felicità possibile qui su questa terra. Quando questa idea si è incontrata nell’illuminismo con l’uguaglianza giuridica delle persone, la possibilità di una tecnologia pratica e utile e l’idea che arricchirsi individualmente era possibile (con la Riforma protestante), si è creato il pensiero liberal-democratico che ha portato alla rivoluzione industriale e, passo dopo passo, al mondo attuale, occidentale e globale al tempo stesso.
Nell’introduzione Felice abbozza una sintesi delle tre rivoluzioni della storia umana:
«La prima è quella cognitiva da cui originano i cacciatori-raccoglitori sapiens sapiens (biologicamente uguali a noi) e alla cui esistenza mitizzata si ispira, per certi aspetti, l’immagine del «giardino dell’Eden».
La seconda è la rivoluzione agricola che inaugura la lunga epoca della «valle di lacrime» e nella quale vengono elaborate due concezioni antitetiche di felicità: una terrena, ma individuale e da conseguire per via ascetica (l’atarassia); una ultraterrena, che tuttavia può essere collettiva o meglio sociale (la «Città di Dio»).
La terza è la Rivoluzione industriale, messa in moto dall’Illuminismo, a partire dalla quale si affermano nuovi ideali di felicità: la «Città dell’uomo», trasposizione terrena della Città di Dio, in cui la felicità individuale si fonde in quella collettiva, qui su questa terra; una visione poi degenerata nel terrore utopistico che segnerà in modo indelebile il vissuto del Novecento.
A queste tre rivoluzioni sono dedicati il secondo, terzo e quarto capitolo.
Il racconto però non finisce qui, per fortuna. A partire dalla Rivoluzione industriale e dalle idee illuministe, inizia a delinearsi anche l’edonismo dei «paradisi artificiali», una concezione oggi divenuta egemone trovando riscontro, sul piano economico, nella società del benessere e consumistica, che a ben vedere è lo stadio avanzato di un processo cominciato nel Settecento inglese (le basi economico-tecnologiche erano già state poste dal capitalismo industriale con la sostituzione delle macchine al lavoro umano). Al tempo stesso, grazie al processo tecnologico e al cambiamento concettuale maturati in età illuministica, va prendendo corpo anche un’ulteriore visione della felicità, che a differenza delle altre cerca di coniugare il benessere materiale, la qualità delle relazioni e la libera ricerca di un significato (o di più significati) nella vita: è una concezione che si accompagna a una trasformazione, tuttora in corso e dagli esiti aperti, che come quella edonistica riguarda la condotta umana e il mondo delle idee» (pp. 20-22)
Questa è la tesi di fondo del libro che viene ripresa nella conclusione: la situazione economica attuale può permettere di ricongiungere etica ed economia.
Felice è consapevole che la sfida è aperta a diversi esiti e che la politica conterà molto con le sue scelte, più che l’economia, perché è la politica che detta le regole del vivere comune, è la politica che fa le leggi e recepisce i cambiamenti del costume e della morale, in tutti i campi, soprattutto in economia.
Se si vuole le disuguaglianze si possono ridurre, molte sono le strategie e le vie possibili, molti autori le hanno indicate e proposte, mentre tocca ai politici compiere le scelte per renderle attuali.
Il libro merita una lettura attenta poiché è ricco di molti aspetti poco indagati nei libri di economia ed è un utile strumento che connette mondi culturali che normalmente non si parlano.
Invito alla lettura
Schematizzando possiamo dire che consideriamo la felicità l’insieme di tre elementi: a) libertà […]; b) relazioni sociali; c) «senso della vita» (p. 13)
Di necessità s’impone pertanto un approccio multidisciplinare: mettere cioè in relazione la storia economica con altre discipline sociali, particolarmente quelle che si sono occupate della felicità nel passato con riferimento alla sua dimensione concettuale (più che materiale) e individuale: la filosofia morale, ma per certi aspetti anche l’antropologia e la psicologia (p. 19)
La civiltà agricola si basa sulla disuguaglianza «di diritto», fra le classi sociali, fra uomini e donne. La comune disposizione esistenziale, che sostiene questa disuguaglianza, è quella della rassegnazione: la rinuncia alla felicità «pubblica», per questo mondo: l’accettazione dell’infelicità, come dimensione del vivere sociale, nella speranza di una felicità ultraterrena o tutt’al più, di una serenità individuale avulsa dalle tribolazioni di ogni giorno (p. 24)
Il paradigma dell’ordine liberal-democratico, che permea il mondo industriale, è invece radicalmente diverso: uguaglianza giuridica, conoscenza utile, diritto alla felicità e valorizzazione dell’arricchimento individuale (p. 25)
Con la prima (la rivoluzione scientifica) inizia a imporsi l’idea della conoscenza utile. Con l’Illuminismo, invece, hanno luogo le altre due trasformazioni decisive: si fa strada la tesi dell’uguaglianza giuridica e si afferma un nuovo concetto di felicità (p. 26)
La sfida è quindi aperta. Nel mondo globale, che lo si voglia o meno, si pone il tema di come costruire un’idea di civitas (humana) e di solidarietà, di fratellanza, che prescinde da una visione trascendente; cioè prescinda dall’idea di un premio al di là della vita, come motivazione dell’azione umana verso il bene (senza escluderlo necessariamente) (p. 300)
Per un tale obiettivo ci vuole altro: ci vuole un’etica che ci porti non solo a tollerare il diverso, ma a riconoscerlo e stimarlo, come espressione e valore della grande e variegata comunità umana (pp. 300-301)
La felicità si coltiva contribuendo alla felicità degli altri, vale a dire praticando la virtù (p. 301)
Il punto, però, è che ricercare un comportamento «assoluto» nell’essere umano è probabilmente sbagliato.
E sulla loro contrapposizione si gioca una delle sfide più importanti del nostro tempo […] La prima concezione è incardinata su quel che resta uno dei pilastri dell’ordine liberal-democratico, l’arricchimento personale. Potremmo definirla come segue: la felicità consiste nella capacità di soddisfare tutti i propri bisogni e desideri, di qualunque tipo, grazie alla disponibilità crescente di beni e servizi […] La seconda concezione poggia invece su un altro principio, alternativo al precedente, ma che pure (ne abbiamo parlato) potrebbe incardinarsi sul paradigma liberal-democratico, o almeno nell’ordine ideale del «villaggio globale»: quel che conta e va davvero valorizzato non è l’arricchimento personale, ma la qualità della vita relazionale (pp. 305-306)
Questa seconda ipotesi di felicità si articola in te componenti. La prima è implicita: il soddisfacimento dei bisogni materiali. […] La seconda componente è la qualità delle nostre relazioni con gli altri esseri umani [.] Questa componente relazionale è davvero centrale, anche perché contribuisce alla terza: perseguire un significato nella vita, uno scopo (o più d’uno) cui indirizzare la felicità (p. 307)
L’idea secondo cui la felicità consiste nella massimizzazione del piacere non è incompatibile proposta: purché sia una ricerca del piacere orientata a un significato che sentiamo di poter dare alla vita; e quindi condivisa, sulla base delle relazioni umane di reciprocità, in una cornice che valorizzi le ragioni dell’individuo e il pluralismo morale (p. 308)
Il nostro approccio esprime quindi la convinzione che l’edonismo, da un lato, e la felicità fondata sulle relazioni umane e le virtù civiche, dall’altro, non siano necessariamente antitetici; ma che, al contrario, possano diventare complementari (p.310)
Messa così sembrerebbe una storia a lieto fine. Perché preoccuparsi? […] La preoccupazione più profonda è quindi legata al timore che quella rivoluzione etica che noi crediamo di osservare, in realtà non esista. O che sia talmente lenta, da risultare irrilevante. L’abisso è incolmabile. E anche la felicità non è che un’illusione (pp. 311-313)
Perché tutto ciò si traduca in felicità, e affinché possa durare, è necessario che alla «rivoluzione del piacere», chiamiamola così, si affianchi una «rivoluzione etica». La buona notizia è che, in merito, non mancano segnali positivi: oggi possiamo vantare una coscienza etica «migliore» e più inclusiva, sotto molti aspetti, più sensibile ai diritti umani, rispetto a tutte le epoche precedenti. […] Non sono sfide facili. Superarle o meno dipende, più che dall’economia, dalla politica, con le regole e le istituzioni che riesce a definire: giudizio etico, individuale, e agire politico, collettivo, appaiono quindi inscindibili – come in fondo pensavano gli stoici, in un altro mondo – e possono rafforzarsi o indebolirsi a vicenda (pp. 344-345)
L’esito dipende da noi. Oggi più che mai l’umanità è artefice del proprio destino, ovvero della sua felicità (p. 345)
Thomas Piketty, Il capitale del XXI secolo, Bompiani, 2014, pp. 950, euro 22,00
Come nascono le disuguaglianze
Il libro è oramai un bestseller mondiale. L'autore è un economista francese che ha studiato a Parigi, ha frequentato la London School of Economics e il MIT a Boston e ora dirige la Ecole des hautes etudes de sciences sociales a Parigi. Sul sito piketty.pse.ens.fr/capital21c si può trovare l'introduzione, l'indice, i grafici e le tabelle pubblicati e gli annessi metodologici utilizzati, oltre al curriculum di Piketty.
La tesi di fondo si può sintetizzare così: è probabile che nel nostro secolo il rendimento del capitale sarà del 4% circa e la crescita dell'1% circa. Per questo motivo i ricchi diventeranno sempre più ricchi e le disuguaglianze aumenteranno, a meno che la politica non intervenga per diminuirle tramite una tassazione mondiale progressiva annuale sul patrimonio.
Lo stesso Piketty, che non è un ingenuo pensatore, ma ha partecipato alla campagna politica di Segolene Royal per le primarie del partito socialista nel 2007, è consapevole che nonostante il passato ci possa aiutare a capire il futuro, la storia tuttavia non è mai un processo lineare e spesso ci sorprende in bene e in male.
La novità di questo saggio è l'avere provato a descrivere cosa è successo fino ad ora ad alcuni indici statistici che servono per comprendere l'andamento del capitalismo occidentale prima e mondiale ora. Con l'avvertenza metodologica che per molti di essi non si hanno dati affidabili per calcolarli, ma stime medie che difficilmente permettono una precisa comparazione tra epoche diverse. Per esempio una bicicletta del 1914 è molto diversa da una bicicletta moderna e paragonarne il valore non è facile.
Questi indici sono il tasso di crescita del prodotto lordo, del rendimento del capitale, del rendimento del lavoro, dell'aumento della popolazione, la composizione dei grandissimi patrimoni privati, dei patrimoni pubblici, dei debiti privati e pubblici. Se la disuguaglianza tra ricchi e poveri, semplificando molto, faceva registrare un rapporto di 7 a 1, nel 1914, essa era scesa a 3 a 1, nel periodo che comprende le due guerre mondiali; dal 1950 sta ritornando ai livelli del 1914 e, presumibilmente, continuerà così per il resto del secolo.
La differenza la fanno vari fattori. Uno è la taglia del capitale posseduto. Più è grande più si hanno mezzi a disposizione per ottenere migliori rendimenti. Lo studio fatto sui capitali delle università americane, possibile perché i dati sono pubblici, mostra come le tre più grandi università (Yale, Harvard e Princeton) hanno avuto nel periodo 1980-2010 un rendimento medio annuale del loro patrimonio (che si aggira sui 30 miliardi di dollari) del 10,2%, mentre per le università con un patrimonio inferiore ai 100 milioni di dollari, il rendimento medio annuo è stato "solo" del 6,2%. Questo perché pur spendendo solo lo 0,3% per la gestione dei loro patrimoni per le grosse università questo significa circa 100 milioni di dollari, mentre per le piccole solo 300.000 dollari, che non permettono di pagare fior di consulenti per la ricerca dei migliori rendimenti possibili. Questo esempio aiuta a comprendere le dinamiche complessive che fanno aumentare le disuguaglianze.
In una fase di sostanziale stagnazione della crescita, ciò che più conta è il patrimonio ereditato, mentre in una fase di crescita economica accentuata (dal 2% in su) conta di più l'intrapresa perché l'aumento della crescita è dato dalle novità tecnologiche, e altri fattori simili che permettono l'accumulo di nuovi capitali. L'esempio tipico sono le nuove tecnologie con Bill Gates e Steve Jobs come icone dei nuovi capitalisti.
Un altro fattore da tenere in considerazione è l'inflazione. Con alta inflazione c'è una redistribuzione del reddito, con una bassa c'è un aumento delle disuguaglianze.
Piketty non è un ingenuo e nel capitolo finale in cui lancia la sua proposta è consapevole che non basta proporre di mettere una imposta progressiva annuale sui patrimoni. La tassa progressiva sui guadagni è stata la conquista del secolo scorso. A fronte del nuovo capitalismo finanziario occorre una nuova modalità di tassazione che, secondo Piketty, riguardi i patrimoni. Anche la tassa progressiva sui guadagni lo sembrava.
Occorre prima di tutto avere un catasto delle attività finanziarie, perché il fattore decisivo è che non si sa chi possiede che cosa e quindi come tassarlo. Piketty non parla molto dei paradisi fiscali (cfr. grafico), ma sappiamo bene come questi siano luoghi di occultamento di grandissimi capitali legali e non. Inoltre Piketty propone di dare maggiori poteri al parlamento europeo e di avere un commissario che si occupi della politica fiscale europea da rendere sopranazionale, pena l'accentuazione del minor peso dei singoli paesi nel mercato mondiale, compresi Inghilterra e Germania.
La sua proposta sta mettendo in crisi il pensiero unico per cui se i ricchi crescono tutta la società cresce di conseguenza. Piketty sta scalando le vette delle vendite su Amazon negli Stati Uniti. Paul Krugman gli ha fatto una recensione positiva sul New York Times, pur evidenziando come l'analisi di Piketty non dica nulla sulle dinamiche del potere, ma mostri solo gli andamenti che pure sono già indicativi di per sé. Ed è già in corso il tentativo da parte dei difensori del pensiero unico di screditare dal punto di vista "scientifico" il lavoro di Piketty, che ha già rintuzzato con successo le critiche ricevute.
Piketty è consapevole che l'economia non è una scienza sociale separata dalle altre: sociologia, storia, psicologia, e anche la filosofia, ma che per comprendere il mondo occorre intrecciare questi saperi.
Invito alla lettura
"La crescita moderna e la diffusione delle conoscenze hanno permesso di evitare l'apocalisse marxista, ma non hanno modificato le strutture profonde del capitale e delle disuguaglianze, o quanto meno non nella misura in cui si è immaginato potessero farlo nei decenni di ottimismo che hanno accompagnato il secondo dopoguerra. Quando il tasso di rendimento del capitale supera regolarmente il tasso di crescita del prodotto e del reddito – come accade fino al XIX secolo e come rischia di accadere di nuovo nel XXI – il capitalismo produce automaticamente disuguaglianze insostenibili, arbitrarie, che rimettono in questione dalle fondamenta i valori meritocratici sui quali si reggono le nostre società democratiche" (pp.11-12).
"Di fatto, la questione della distribuzione delle ricchezze è troppo importante per essere lasciata ai soli economisti, sociologi, storci, filosofi. E' una questione che interessa tutti, ed è meglio che sia così. La realtà concreta e fisica della disuguaglianza è ben visibile a tutti coloro che vivono, e suscita naturalmente giudizi politici netti e contradditori" (p. 13).
"Oggi è più urgente che mai rimettere la questione delle disuguaglianze al centro dell'analisi economica e tornare a porre le domande lasciate senza adeguata risposta nel XIX secolo. Per troppo tempo il problema della distribuzione delle ricchezze è stato trascurato dagli economisti. (...) Per rimettere la questione della distribuzione al centro dell'analisi, bisogna cominciare con il raccogliere il massimo numero di dati storci, in modo da capire meglio gli sviluppi del passato e le tendenze del presente" (pp. 34-35).
Gabriel Zucman, La ricchezza nascosta delle nazioni. Indagine sui paradisi fiscali, Add Editore, Torino 2017, euro 15, pp. 141 (originale 2013 aggiornato nel 2015)
Ancora sui paradisi fiscali…!
Anche se l’originale è di qualche anno fa, l’indagine di Zucman, economista francese che lavora all’università della California a Berkeley, è una proposta molto interessante che sta guadagnando consensi mentre viene conosciuta nel mondo (il libro è uscito in 17 paesi) perché coniuga una seria analisi con una proposta sufficientemente semplice da poter essere perseguibile con un po’ di buona volontà, ma soprattutto di volontà politica di risanare le finanze pubbliche depauperate dalle ricchezze nascoste nei paradisi fiscali.
Thomas Piketty, autore de “il Capitale del XXI”, secolo ha parole di grande elogio – nella prefazione – per questo lavoro, sottolineando come la proposta di creare un catasto dei titoli finanziari, di fatto, segue la scia dei catasti creati per le proprietà immobiliari e terriere nel Settecento e Ottocento, utili a gestire la tassazione dei patrimoni, allora soprattutto immobiliari, che ha permesso agli Stati di tassare i patrimoni in maniera utile e trasparente, cosa che allo stato attuale non si può fare con la stessa efficacia rispetto ai patrimoni costituiti soprattutto da beni finanziari.
Anche se l’autore è consapevole dei limiti dei propri calcoli dei patrimoni nascosti nei paradisi fiscali, tuttavia ritiene fondamentale utilizzare i dati raccolti per avere quanto meno una stima sufficientemente sicura dell’ammontare della ricchezza sottratta al fisco degli stati.
Le proposte sono tre: creare «un catasto mondiale dei patrimoni finanziari che registri i proprietari di tutte le azioni e obbligazioni in circolazione» (p. 16); prevedere «sanzioni proporzionate al costo che i paradisi fiscali impongono ad altri paesi» (p. 17); «ripensare l’imposizione sulle società» (p. 17) multinazionali basandosi sugli utili consolidati in tutto il mondo e non sui profitti Paese per Paese.
Zucman scrive in maniera chiara e piacevole e questo aiuta a seguirlo nei sui calcoli e ragionamenti, a volte anche con gustosi anedotti che illustrano in maniera esauriente i fatti che vuole descrivere.
L’autore è convinto che quanto accade è per volere di persone precise che guidano alcune istituzioni e presidiano alcuni processi e che perseguono obiettivi precisi, che non coincidono con il bene comune, ma con quello personale di coloro che vogliono occultare la propria ricchezza, siano essi semplici ricchi e industrie multinazionali che vogliono eludere o evadere le giuste tasse decise democraticamente, oppure esponenti della malavita internazionale che approfittano dell’opacità dei mercati per fare i loro affari in maniera indisturbata.
Il primo capitolo è la storia di un secolo di paradisi fiscali, dove e come sono nati, molto interessante, per capire il fenomeno. Tutto è nato in Svizzera dopo la prima guerra mondiale e, anche se oggi c’è stata una globalizzazione anche in questo settore, la Svizzera ancora è il maggior paradiso fiscale al mondo. Essa raccoglie 2.100 miliardi euro, di cui la maggior parte dall’Europa (1.200) che investe soprattutto in fondi di investimento lussemburghesi (700), azioni globali (500) e obbligazioni globali (500).
Il secondo capitolo quantifica quanto patrimonio mondiale sia nascosto nei paradisi fiscali. La stima per difetto è che sul patrimonio mondiale delle famiglie nel 2014, valutato in 87.000 miliardi di euro, l’8% (pari a 6.900 miliardi) sia detenuto offshore. La stima non tiene conto di alcuni tipi di ricchezza (contanti, assicurazioni, beni tipo: gioielli, barche, opere d’arte, oro, ecc.).
Questo occultamento di ricchezza provoca un mancato introito mondiale di tasse per 170 miliardi di euro all’anno, di cui 70 per l’Europa, 30 per gli USA e il rimanente per il resto del mondo.
Recuperare queste tasse evase aiuterebbe a ridurre la pressione fiscale in molti paesi che hanno aumentato il loro debito pubblico dopo la crisi del 2008-9 e aiuterebbe a ridurre le disuguaglianze redistribuendo gli ingenti profitti evasi.
Il terzo capitolo è molto interessante perché analizza gli errori fatti fino ad ora sia dagli Stati che dai regolatori internazionali nella lotta ai paradisi fiscali, errori che indicano come la proposta fatta da Zucman sia credibile e praticabile. Da leggere con molta attenzione perché sfata il mito che non ci siano praticamente più paradisi fiscali nel mondo, cioè la black list internazionale è pressoché vuota, ma di fatto la white list non garantisce affatto che le pratiche evasive non continuino, anzi, queste sono incrementate dopo la crisi del 2008-9.
Il capitolo 4 presenta in maniera analitica le prime due proposte e il capitolo 5 la terza.
Ed ecco la conclusione del libro, un invito alla mobilitazione dei cittadini affinché costringano i governanti a scelte coraggiose e praticabili.
«La mia ricerca porta alla luce le modalità concrete con cui gli ultraricchi e le multinazionali mettono in pratica l’evasione fiscale. Ne calcola il costo per gli Stati – cioè per tutti noi – e soprattutto propone strumenti per mettervi fine.
L’Europa è nel bel mezzo di una crisi interminabile. Molti credono di vedervi il segno di un declino irreversibile, ma si sbagliano. Il continente europeo è la regione più ricca del mondo, e lo resterà ancora a lungo. I patrimoni provati sono di molto superiori al suo debito pubblico. E, contrariamente a quanto di crede, i patrimoni possono essere tassati. Gli utili sono trasferiti nelle Bermuda, ma non le fabbriche. Il denaro viene nascosto in Svizzera, ma non vi è investito. Il capitale non si muove, può solo essere nascosto. L’Europa si sta derubando da sola.
Questa spirale può essere invertita. Grazie a un catasto finanziario mondiale, a un sistema di scambio automatico delle informazioni e a un nuovo modo di tassare le multinazionali, la dissimulazione fiscale può essere fermata. E’ un’utopia? Fino a cinque anni fa la maggior parte degli esperti credeva che lo scambio automatico delle informazioni fosse irrealizzabile, prima di aderirvi a sua volta. Non ci sono ostacoli tecnici per le misure che propongo e nemmeno la resistenza dei paradisi fiscali è insormontabile: può essere spezzata con la minaccia di sanzioni commerciali proporzionate.
Anche se le soluzioni esistono, fono ad oggi i governi non hanno brillato per audacia o determinazione. E’ quindi giunto il momento di metterli di fronte alle loro responsabilità. Spetta ai cittadini mobilitarsi, in Europa e forse, soprattutto, nei paradisi fiscali. Non credo che la maggioranza degli abitanti del Lussemburgo – di cui meno del 50% ha votato alle ultime elezioni – approvi che il Granducato sia alla mercé della finanza offshore. E nemmeno la maggior parte degli svizzeri accetti l’aiuto attivo che i propri banchieri forniscono ai miliardari che vogliono evitare i loro obblighi fiscali. Non sono solo gli Stati a dover combattere una battaglia contro la frode fiscale, sono soprattutto i cittadini a dover lottare contro la falsa ineluttabilità dell’evasione fiscale e dell’impotenza delle nazioni» (pp. 130-131)
I dati, grafici e tabelle alla base del libro sono disponibili in rete al seguente link:
Due chiose finali: è giusto nascondere la propria ricchezza? Dopotutto la chiesa insegna, ma anche il buon senso lo dice, che i beni che ognuno possiede hanno una destinazione universale e che la proprietà privata ha dei limiti che si concretizza nella tassazione progressiva. Perché chi governa non prende il toro per le corna e produce una legislazione adeguata a una maggiore trasparenza finanziaria? Ai posteri...
Dalla povertà non puoi prenderti una pausa.
Controintuizioni di speranza per la rivoluzione
Bregman, R., Utopia per realisti. Come costruire davvero il mondo ideale, Feltrinelli, Milano 2017, pp. 255, euro 18,00.
«Ma la vera crisi dei nostri tempi, della mia generazione, non nasce dal fatto che non cela passiamo bene, e nemmeno che potremmo stare peggio da qui in poi. No, la vera crisi è la nostra incapacità a tirare fuori qualcosa di meglio» (p. 17)
Bregman è un giovane storico nato nel 1988, olandese, di solida formazione, grande capacità critica anche verso di sé e sufficientemente spregiudicato e non inquadrato nel pensiero dominante. In genere sono i giovani esploratori che aprono nuove strade, come accade nella ricerca matematica e fisica, per esempio. Bregman è uno di questi.
Le sue proposte non sono poi così fuori dal mondo, u-topiche: reddito minimo garantito per i poveri, riduzione delle ore lavorative settimanali, lavori utili al bene comune e non lavori “burla”, apertura delle frontiere ai migranti economici, maggiore tassazione dei patrimoni secondo quanto propone Piketty.
La bellezza e la novità di questo libro è che porta innumerevoli esempi storici di come queste proposte sono state già attuate in vari posti del mondo sia sviluppato che in via di sviluppo.
Bregman è convincente nelle sue proposte, perché ci crede ed è supportato da evidenze storiche, anche se è sufficientemente consapevole che il lavoro, soprattutto culturale, prima ancora che politico, è enorme perché il pensiero dominante è forte ed i suoi sostenitori sono determinati a sostenerlo fino in fondo.
E’ una battaglia che si svolgerà prima di tutto nelle menti delle persone, dei popoli, e poi nelle aule dei parlamenti e nei decreti dei governi.
Il primo capitolo fa una disanima di che cosa sia un’utopia e della sua forza per cambiare la visione del mondo in cui si è sviluppata. Potrebbe essere utile a questo proposito leggere anche il libro di Paolo Prodi e Massimo Cacciari, “Occidente senza Utopie” (Il Mulino, 2016, euro 14,00)
Il secondo è quello più controintuitivo: regalare dei soldi a chi non ne ha a sufficienza, ai poveri, senza contropartite è l’investimento migliore e più redditizio per tirarli fuori dalla loro miseria e precarietà.
Un esempio tra i tanti che Bregman propone. Nel marzo del 1973 il governatore della provincia di Manitoba, in Canada, decise di stanziare 83 milioni di dollari attuali per dare a 1.000 cittadini di Dauphin, su 13.000 abitanti, un reddito minimo, cioè un assegno mensile. Una famiglia di 4 persone riceveva l’equivalente attuale di 19.000 dollari all’anno senza altri requisiti. Il successo fu clamoroso. Di fronte al timore che con un reddito annuo garantito la gente avrebbe smesso di lavorare e avrebbe iniziato a fare più figli, i giovani posticiparono le nozze e la natalità crollò. I risultati scolastici migliorarono. Gli uomini lavorarono solo l’1% di ore in meno, le donne sposate restarono di più a casa dopo aver partorito e le studentesse studiarono di più. I ricoveri ospedalieri diminuirono del 8,5%. Inoltre calarono le violenze domestiche e i problemi di salute mentale. Un vero successo che il governatore successivo, conservatore non comprese e terminò l’esperimento.
Il terzo approfondisce la questione della disuguaglianza come fonte di povertà.
Il quarto è il racconto di come Nixon, repubblicano, sia stato a un passo dal creare un vero welfare state negli USA e di come si possa influenzare un presidente e un Congresso con dati volutamente falsificati, pur di sostenere le proprie convinzioni ideologiche, in questo caso false.
Il quinto è una disanima di come si costruiscono statistiche non tanto più vere, ma che critiche, nel senso di sapere cosa effettivamente mostrano o nascondono.
Il sesto è una prospettiva sul futuro del lavoro, che sarà sicuramente diverso da quello che abbiamo sotto gli occhi, in quanto già oggi molti chiedono di fare lavori veri, non “finti”, cioè che non hanno un vero senso per la costruzione del bene comune.
Il settimo è la disamina di come il lavoro dei banchieri sia spesso una “burla”, cioè essi non creano ricchezza, ma solo la spostano a proprio vantaggio e a detrimento di coloro che ne avrebbero più bisogno. Inoltre mostra come moltissime persone fano lavori burla, tipo «addetto al telemarketing, direttore delle risorse umane, social media manager, consulente di pubbliche relazioni e una sequela di posizioni amministrative in ospedali, università e uffici». Secondo Bregman oggi i migliori cervelli si dedicano a lavori remunerati ma che nono sono quelli che producono «utilità, qualità e innovazione», tutte azioni che migliorano la vita comune: «Pensate come sarebbe se tutto questo talento fosse investito non nello spostamento della ricchezza, ma nella sua creazione. Chi lo sa, forse avremmo già i jet pack, avremmo già costruito le città sottomarine o trovato la cura per il cancro».
L’ottavo è una ripresa di quale lavoro nell’epoca della rivoluzione tecnologica, come non essere luddisti, e come poter affrontare un nuovo modo di essere lavoratori.
Il nono riguarda il fatto che se apriamo le frontiere agli immigrati economici, tutti ci guadagnano. Le merci circolano, ma i lavoratori no. Come riequilibrare tutto questo?
Il decimo è la disamina di come sia nato il pensiero dominante attuale in economia e di come la forza delle idee e la loro razionalità sia sufficiente per scalfire le convinzioni fate anche di emozioni e tanto altro.
L’epilogo di 9 pagine è folgorante e merita tutto il libro. Si parla di come perseguire concretamente questi obiettivi di civiltà.
C’è la politica come arte del possibile, come ha affermato Otto von Bismark, e la Politica che non parla di regole, ma di rivoluzione, non dell’arte del possibile, ma di come rendere inevitabile l’impossibile. Questa Politica è sempre stata ad appannaggio della sinistra, che però sembra averlo dimenticato, diventando il “socialismo perdente”. Il socialista perdente ha dimenticato che il vero problema non è il debito pubblico, ma le imprese e le famiglie sovraesposte ai rischi dell’economia, ha dimenticato che investire nella povertà è un investimento che ripaga con gli interessi.
Bregman vuole un nuovo movimento dei lavoratori «che combatta non solo per più posti e per stipendi più alti, ma soprattutto per un lavoro che abbia un valore intrinseco» (p. 212).
Per Bregman i socialisti perdenti devono smettere di «bearsi della loro superiorità morale e delle idee sorpassate […] In fin dei conti, quello che manca ai socialisti perdenti è l’ingrediente principale del cambiamento politico: la convinzione che c’è davvero una strada migliore. Che l’Utopia è a portata di mano».
Il libro si conclude con due consigli di Bregman.
«Per prima cosa, sappiate che là fuori ci sono tante persone come voi. Tantissime. Ho incontrato un’infinità di lettori che mi hanno detto che, per quanto non credano minimamente nelle idee di questo libro, hanno capito che il mondo è avido e corrotto. La risposta che davo loro era questa: spegnete la tv, guardatevi intorno e organizzatevi. Tantissima gente ha il cuore al posto giusto.
Secondo: vi consiglio di farvi una pelle più coriacea. Non permettete che nessuno vi insegni come vivere. Se vogliamo cambiare il mondo dobbiamo essere irrealisti, poco ragionevoli e implausibili. Ricordate: anche quelli che invocavano l’abolizione dello schiavismo, il suffragio alle donne e il matrimonio fra persone dello stesso sesso erano etichettati un tempo come pazzi. Finché la storia ha dato loro ragione» (p. 214).
Parole saggie di un giovane impegnato a costruire un mondo migliore.
Invito alla lettura:
I soldi gratis impoveriscono la gente. Peccato che non sia vero, almeno se stiamo alle prove (p. 31)
Questa iniziativa ha messo la scelta nelle mani dei poveri [..] Faye non dà il pesce alla gente, e nemmeno le insegna a pescare. Le dà dei soldi, nella convinzione che i veri esperti di quello che serve ai poveri siano i poveri stessi (p. 31)
Per tornare all’Università di Manchester, i suoi ricercatori hanno riassunto i vantaggi di questi programmi in questi termini: 1) le famiglie fanno buon uso dei soldi; 2) la povertà cala; 3) possono esserci svariati vantaggi a lungo termine quanto a reddito, salute ed entrate fiscali; e 4) questi programmi costano meno delle alternative. Perciò perché inviare quei costosi bianchi sui loro suv quando ci basta elargire i loro stipendi ai poveri? (p. 33)
La povertà è fondamentalmente una mancanza di contante. (p. 34)
Andando al sodo, queste tasse (sulle transazioni finanziarie) ci renderebbero tutti più ricchi. Non solo darebbero a chiunque una fetta più equa della torta, ma la torta sarebbe più grande. E allora i genietti emigrati a Wall Street potrebbero diventare insegnanti, inventori e ingegneri.
Negli ultimi decenni è successo l’esatto contrario. Una ricerca svolta ad Harvard ha scoperto che i tagli alle tasse dell’era Reagan favorirono una svolta di massa nelle carriere delle menti più brillanti del paese, da insegnanti e ingegneri a banchieri e commercialisti. Laddove nel 1970 il numero di laureati maschi a Harvard che sceglievano una vita dedicata alla ricerca era ancora il doppio di quelli che preferivano le banche, vent’anni dopo il rapporto s’era invertito, e gli ex allievi occupati nel settore finanziario erano una volta e mezzo più numerosi (p. 139)
Pertanto se c’è un posto in cui possiamo intervenire in modo che dia dividendi per la società negli anni, quello è l’aula scolastica […] L’interesse verte sulle competenze, non sui valori, Sulla didattica, non sugli ideali. Sulla “capacità di risoluzione dei problemi”, ma non su quali problemi bisogna risolvere. Ineluttabilmente tutto ruota attorno alla domanda: di quali competenze e conoscenze hanno bisogno gli studenti di oggi per essere assunti nel mercato del lavoro di domani, il mercato del 2030?
E’ esattamente la domanda sbagliata. […]
Invece dovremmo porre una domanda totalmente diversa: quale conoscenza e quali competenze vogliamo che abbiano i nostri figli nel 2030? In questo modo, invece di anticipare e adattarci, ci concentreremmo sulla direzione e sulla creazione. Invece di domandarci di che cosa abbiamo bisogno per sbarcare il unario con questo o quel lavoro burla, potremmo riflettere su come vogliamo sbarcare il lunario. E’ una domanda a cui non può rispondere nessun trend watcher. Come potrebbe? Loro seguono solo le tendenze, mica le fanno. Questa parte compete a noi. (pp. 140-141)
I politologi hanno verificato che il voto delle persone non è determinato tanto dalle loro percezioni della propria vita, quanto dal loro concetto di società. Non siamo particolarmente interessati a quello che il governo può fare per noi personalmente, vogliamo sapere cosa può fare per tutti noi. Quando esprimiamo il nostro voto non lo facciamo solo per noi, bensì per il gruppo cui vogliamo appartenere. (p. 196)
Ma il più grosso problema del socialista perdente non è che si sbaglia. Il suo più grosso problema è che è noioso. Barboso. Non ha una storia da raccontare, nemmeno un linguaggio per narrarla. […] Purtroppo il socialista perdente s’è scordato che la storia della sinistra dovrebbe essere una narrazione fatta di speranza e progresso […] Se non riesci a spiegare il tuo ideale a un dodicenne di intelligenza media, allora probabilmente è colpa tua. (p. 210)
Riforme? Cavolo, sì. Diamo una bella ripassata al settore finanziario. Costringiamo le banche a mettere insieme ammortizzatori più grossi in modo che non vadano gambe all’aria appena arriva un’altra crisi. Facciamole a pezzetti, se proprio dobbiamo, in modo che la prossima volta ai contribuenti non resti da pagare il conto perché le banche sono “troppo grosse per fallire”. Smascheriamo e distruggiamo tutti i paradisi fiscali in modo che i ricchi possano finalmente essere costretti a sganciare la giusta parte e i loro commercialisti possano fare qualcosa di utile.
Meritocrazia? Ben venga. Paghiamo finalmente la gente in base al suo vero contributo. Netturbini, infermieri e insegnanti dovrebbero avere un aumento sostanzioso di stipendio, ovvio, mentre qualche lobbista, legale o banchiere vedrebbe crollare i propri emolumenti. Se volete svolgere un lavoro che danneggi il pubblico, fate pure. Però dovrete pagare per il privilegio con un'imposta più pesante.
Innovazione? Assolutamente. Ancora oggi va sprecata un'enorme quantità di talento. Se i laureati della Ivy League un tempo andavano a fare gli scienziati, i pubblici ufficiali e gli insegnanti, oggi è assai più probabile che scelgano banche, studi legali o incubatori di pubblicità come Google e Facebook. Fermatevi un momento a riflettere sui miliardi di dollari di tasse che vengono spesi per addestrare i migliori cervelli della società, tutto questo perché possano imparare a sfruttare gli altri nella maniera più efficiente possibile, e vedrete che vi girerà la testa. Immaginate come sarebbe diverso se i migliori della nostra generazione dovessero applicarsi alle massime sfide dei nostri tempi. Il cambiamento climatico, per esempio, e la popolazione che invecchia e la disuguaglianza... Questa sì che sarebbe vera innovazione.
Efficienza? É questo il punto. Pensateci: ogni dollaro investito in un senzatetto restituisce il triplo, se non di più, come risparmi nei costi di sanità, polizia e tribunale. Immaginate che cosa potrebbe ottenere l'eliminazione della povertà infantile. Risolvere questo tipo di problemi è parecchio più efficiente della loro "gestione", che alla lunga costa molto di più.
Tagliare lo stato-mamma? Esatto. Sforbiciamo quegli insensati e arroganti corsi per il riavviamento di chi ha perso il lavoro (in particolare quelli che prolungano la disoccupazione) e smettiamola di addestrare e umiliare chi incassa un sussidio. Diamo a tutti un reddito di base, venture capital, capitale di rischio per il popolo, che ci permetta di tracciare la rotta della nostra vita.
Libertà? Puoi dirlo forte, sorella. Mentre siamo qui a parlare, fino a un terzo della forza lavoro è invischiato in “lavori burla" che sono considerati insensati dalle stesse persone che li svolgono. Non molto tempo fa ho parlato a qualche centinaio di consulenti sulla crescita dei lavori inutili. Con mio grande stupore non sono stato fischiato dal pubblico. Non solo, ma mentre alla fine bevevamo un goccio, più di una persona mi ha confessato che alcuni compiti ben pagati affidati a loro gli avevano dato in realtà la libertà finanziaria di fare qualcosa di meno remunerato ma più dignitoso.
Queste storie mi hanno ricordato tutti i giornalisti freelance che sono stati risucchiati nella scrittura di pezzi promozionali per aziende che disprezzano soltanto per finanziare il proprio lavoro di indagine critica (esattamente sulle stesse aziende). Il mondo alla rovescia? A quanto pare, nel capitalismo moderno paghiamo le cose che troviamo sinceramente appaganti con... con le stronzate, le burle.
È venuto il momento di ripensare il nostro concetto di "lavoro". Quando rivendico una settimana di lavoro più corta, non propongo lunghi fine settimana letargici. Propongo che passiamo più tempo sulle cose che contano davvero per noi. Qualche anno fa, la scrittrice australiana Bronnie Ware ha pubblicato un libro intitolato The Top Five Regrets of the Dying [Vorrei averlo fatto. I cinque rimpianti più grandi di chi è alla fine della vita], i primi cinque rimpianti dei moribondi che aveva accudito quando faceva l'infermiera. Indovinate un po'. Nessuno le aveva detto che avrebbe voluto prestare maggior attenzione alle presentazioni in PowerPoint dei colleghi o aver fatto più riunioni sulla creazione rivoluzionaria nella società in rete. Il loro più grosso rimpianto era: "Vorrei aver avuto il coraggio di vivere una vita vera per me, non la vita che gli altri si aspettavano da me". Numero due: "Vorrei aver lavorato di meno". (pp. 210-212)
E così via per tutto il libro…
David Harvey, Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo, Feltrinelli, Milano 2014, euro 25,00.
L'autore, nato nel 1935, è geografo,sociologo e politologo inglese, è un marxista convinto, ma aperto al dialogo con chiunque sia interessato a cercare di realizzare una alternativa al modo con cui il capitale sta governando il mondo.
La sua età lo mette al riparo dagli unilateralismi di una teoria, quella di Marx (di cui è grande studioso, e con sufficente senso critico e disincanto su ciò che si può fare oggi.
Il suo intendimento è quello di proporre una direzione globale, diversa da quella del capitale, cui orietare gli sforzi di tutti coloro che non sono soddisfatti di come sta andando il mondo governato dal capitale.
Vi propongo la struttura del libro:
Le 7 contraddizioni dei fondamenti:
1) Valore d'uso e valore di scambio
2) Il valore sociale del lavoro e la sua rappresentazione mediante il denaro
3) Proprietà privata e Stato capitalistico
4) Appropriazione priivata e ricchezza comune
5) Capitale e lavoro
6) Capitale come processo o come cosa?
7) L'unità contraddittoria di produzione e realizzazione
Le 7 contraddizioni in movimento:
8) Tecnologia, lavoro e umanità a perdere
9) Divisioni del lavoro
10) Monopolio e concorrenza: centralizzazione e dec entramento
11) Sviluppi geografici disomogenei e produzione dello spazio
12) Disparità di reddito e di ricchezza
13) Riproduzione sociale
14) Libertà e dominio
Le 3 contraddizioni pericolose:
15) Crescita composta senza fine
16) La relazione del capitale con la natura
17) La rivolta della natura umana
Conclusione: Prospettive per un futuro felice ma contestato: la promessa dell'umanesimo rivoluzionario
Epilogo. Idee per una prassi politica
E' un libro ceh si può leggere dalla fine (Conclusione ed Epilogo, che trovate nell'invito alla lettura qui sotto), per chi vuole subito sapere cosa si può fare. Ma vale la pena aspettare e leggerlo fin dall'inizio, perché l'analisi delel 17 contraddizioni è veramente interessante, puntuale e ricca di molti significati per comprendere il mondo che stiamo vivendo.
La prospettiva è quella di provare a cambiare la visuale del pensiero unico che ci abita interiormente: il profitto e l'accumulazione del denaro, difeso dalla proprietà privata. Tutti siamo immersi in questo ambiente culturale, sia che ci muoviamo attivamente in questa direzione, sia che la subiamo e vogliamo contrastarla.
Harvey ci invita ad avere una grande consapevolezza che il cambiamento di prospettiva, a questio livello,non accadrà da sé, ma ha bisogno di molte persone decise anche a sopportare opposizioni dure, ma anche a far soffrire chi detiene il capitale in modo abnorme e dovrà, volente o nolente, lasciarlo andare.
E' un sogno o una possbile realtà che va perseguuita e che necessita di tempi lunghi?
Soprattutto è un cambio di paradigma, quello che Harvey propone:
la persona realizzata non è quella che accumula denaro senza preoccuparsi della violenza che esercita, e si vuole lavare la coscienza con della benificenza, ma è quella che condivide con gli altri la vita e si adopera affinché tutti possano realizzarsi al meglio e con creatività.
Non è una prospettiva facile da realizzarsi, ed Harvey ne è consapevole. Per questo da umanista rivoluzionario cerca alleanze con tutti quegli umanesimi religiosi che possono condividere sufficinetemente la medesima direzione di marcia.
Può essere utile andare su www.youtube.com, digitare: Acli Camaldoli 2014 e ascoltare le registrazioni delle relazioni di Donatella Scaiola, Salvatore Natoli e don leonardo Salutati, per approfondire il tema del denaro come idolo-feticcio.
Invito alla lettura: clicca qui
Dello stesso autore ho recensito: L'enigma del capitale, al seguente link:
http://www.ilcristo.it/index.php/antropologia/economia/32-harvey-lenigma-del-capitale