Ci sono in Italia almeno tre populismi espliciti che si sono e si stanno confrontando tra loro, mentre un quarto si è tenuto come sempre dietro le quinte, ma non per questo è meno presente ed attivo.
I primi tre populismi sono quelli di Berlusconi-Salvini, con profonde differenze rispetto al come stare in Europa, il Movimento cinque Stelle, nel suo programma politico abbastanza indeterminato se non nel fatto di essere contro la casta, ma con una non chiara definizione di un progetto per l’Italia e gli italiani, Renzi (e non tanto il PD in quanto tale) con la sua voglia di autosufficienza e di non voler fare alleanza con il vecchio potere di sinistra o con altre istanze sociali, da qui la sua sconfitta politica, prima di tutto, e poi elettorale.
Il quarto populismo, secondo me, è quello del pensiero unico economico-liberista, che si costituisce come ristretta elite che si estranea dal resto del mondo, e lo vuole tuttavia determinare e governare. E’ un populismo al contrario, se vogliamo essere più precisi, in quanto ha un potere effettivo e non banale nelle sue mani, e che usa quotidianamente e pesantemente. In effetti il suo scopo non è quello di escludere qualcuno dal suo progetto sociale, ma quello di emarginare tutti gli altri al solo scopo di godere il più possibile dei frutti del proprio dominio.
Vorrei riprendere qui il contributo di Ernesto Laclau (La ragione populista, Laterza, Bari-Roma 2008) alla comprensione del fenomeno populista, che ritengo originale e fecondo dal punto di vista della comprensione del fenomeno, tenendo conto anche della PAROLA Populismo che Fabio Cucculelli ha pubblicato su Benecomune.net il 7 gennaio 2015 (http://www.benecomune.net/rivista/rubriche/parole/populismo/).
Laclau (1935-2014), sociologo argentino postmarxista che ha operato principalmente in Inghilterra, ha studiato la politica che definisce populista da un punto di vista che combina l’analisi sociale con quella psicanalitica. Questa commistione, niente affatto estrinseca, lo porta a una comprensione del fenomeno come una forma strutturale della politica: «con «populismo» non ci riferiamo a un tipo di movimento — identificabile magari con una certa base sociale o un certo particolare orientamento ideologico —, ma ci riferiamo a una logica politica. Tutti i tentativi di scorgere ciò che è tipico del populismo in elementi come una base sociale di contadini o piccoli proprietari, oppure la resistenza alla modernizzazione economica, oppure la manipolazione da parte di élites, sono, come abbiamo visto, assai discutibili, perché sollevano una valanga di eccezioni» (p. 110).
La sua analisi affronta dapprima il problema di come nasce e si struttura un fenomeno populista.
Una parte di un popolo si consideracome il tutto del popolo, per vari motivi che approfondiremo con Laclau, per esempio la plebs romana come populus. In questo modo crea una frontiera all’interno del popolo che esclude e mette fuori chi non fa parte di quella parte che si fa tutto, in genere il potere costituito.
Come è possibile che accada questo fatto sociale?
Laclau ritiene che le domande sociali che non vengono prese in carico da chi detiene il potere di dare loro una risposta, quindi domande sociali insoddisfatte, si possano coagulare in un simbolo o una persona, formando così una catena di differenze equivalenziali. Queste domande sociali diventano così equivalenti tra di loro, nel senso che hanno tutte lo stesso valore di essere in contrapposizione con il potere che non le soddisfa. Rimangono domande particolari, ma si equivalgono in quanto tutte sono caratterizzate da questa contrapposizione con il potere.
Queste catene equivalenziali possono includere più o meno domande sociali insoddisfatte.
Inoltre, nella società ci sono sempre domande che sono soddisfatte e altre che non lo sono e la dialettica che si instaura tra le une e le altre non viene mai meno: essa è costitutiva del sociale, in quanto non è possibile soddisfare tutte le domande sociali.
Rigettando ciò che è escluso, la catena equivalenziale si condensa così in un tutto, di fatto un simbolo che può essere sia un’idea: “tutto il potere ai soviet”, oppure una persona: “Peron” in Argentina.
Per poter però raccogliere il più ampio spettro di domande sociali insoddisfatte, questo significante deve rimanere vuoto, nel senso lacaniano del termine, cioè più è indeterminato meglio può contenere istanze anche contraddittorie, poiché il suo scopo non è quello di soddisfarle, in quanto impossibili ad esserlo in toto, ma a idealizzarle, come – così propone Laclau riprendendo la lezione psicoanalitica di Lacan – il valore-latte del seno materno per il bambino.
Da qui l’indeterminatezza e la scarsa definibilità di un programma populista, al di là di qualche significativo slogan che, essendo generico, non dice assolutamente nulla su come raggiungere il fine del radunare un popolo intorno a un progetto politico.
In questo modo si costituisce un popolo che ha una sua identità simbolica vuota.
Laclau si esprime così, scusate la lunga citazione, ma che ritengo utile per entrare nel modo di pensare dell’autore, che è originale e in genere poco familiare:
«Ho mostrato come l'equivalenza e la differenza siano di per sé incompatibili; nondimeno, esse si esigono a vicenda come condizioni necessarie per la costruzione del sociale. Il sociale non è nulla se non il luogo di questa tensione irriducibile. E il populismo? Se non è possibile una separazione netta tra le due logiche, perché possiamo dire che il populismo tende a privilegiare il momento equivalenziale? E soprattutto che cosa significa «privilegiare» in questo contesto? Esaminiamo con cura la questione. Ciò che ho detto circa la totalizzazione, l'egemonia e i significanti vuoti ci fornisce gli indizi utili a risolvere l'enigma. Da un lato, ogni identità sociale (cioè discorsiva) si costituisce nel punto di incontro tra differenza ed equivalenza — così come le identità linguistiche sono la sede sia di relazioni sintagmatiche (combinazione) sia di relazioni paradigmatiche (sostituzione). Dall'altro, però, il sociale non è mai uniforme né regolare, poiché, come visto, la totalizzazione esige che un elemento differenziale giunga a rappresentare un intero impossibile. (I simboli di Solidarnosc, per esempio, non rimasero le domande particolari di un gruppo di lavoratori a Danzica, ma finirono per significare un campo popolare ben più ampio, schierato contro un regime oppressivo.) Così, una certa identità è prescelta dall'intero campo delle differenze, per incarnare questa funzione totalizzante. Ecco allora — per rispondere alla domanda precedente — che cosa significa «privilegiare». Ripristinando una vecchia categoria fenomenologica, potremmo dire che questa funzione consiste nel porre l'orizzonte del sociale, il limite dí ciò che è rappresentabile al suo interno (abbiamo già parlato del rapporto tra il limite e la totalità).
La differenza tra una totalizzazione istituzionalista e una totalizzazione populista va cercata al livello di quei significanti privilegiati, egemonici che strutturano, come punti nodali, l'insieme di una formazione discorsiva. Differenza ed equivalenza sono presenti in entrambi i casi, ma un discorso istituzionalista si sforza di far coincidere i limiti della formazione discorsiva coi limiti della comunità: il principio universale della «differenzialità» diventa l'equivalenza dominante all'interno di uno spazio comunitario omogeneo. (Si pensi ad esempio all'«una nazione» di Benjamin Disraeli.) Mentre accade l'opposto col populismo: una frontiera di esclusione divide la società in due campi, II «popolo», in questo caso, è qualcosa di meno della totalità dei membri di una comunità: è una componente parziale, che ciononostante aspira a essere considerata l'unica totalità legittima. La terminologia tradizionale — che è passata nel linguaggio comune — precisa questa differenza: il popolo può essere concepito come populus, il corpo di tutti i cittadini, oppure come plebs, i sottoprivilegiati. Perfino questa distinzione, però, non afferra esattamente il punto. Essa, infatti, può facilmente apparire come una distinzione giuridica, e in tal caso si ridurrebbe a una distinzione fatta all'interno di uno spazio omogeneo, che dà legittimazione universale a tutte le sue parti componenti — ciò significa che la relazione tra i suoi due termini non sarebbe mai antagonistica. Per ottenere il «popolo» del populismo, abbiamo bisogno di qualcosa di più: abbiamo bisogno di una plebs che reclami di essere l'unico populus legittimo — abbiamo bisogno di una parzialità che pretenda di fungere da totalità della comunità. («Tutti i poteri ai Soviet», o enunciati equivalenti in altre formazioni discorsive, è un esempio perfetto di rivendicazione populista.) Nel caso di un discorso istituzionalista, abbiamo visto che il principio di differenzialità reclama di essere l'unico equivalente legittimo: tutte le differenze sono considerate egualmente valide all'interno di una totalità più ampia. Nel caso del populismo, invece, questa simmetria è rotta: c'è una parte che si identifica col tutto. Ed ecco allora, come già abbiamo segnalato, che una radicale esclusione ha luogo all'interno dello spazio comunitario. Nel primo caso, il principio di differenzialità è l'unica equivalenza dominante; nel secondo caso, ciò non basta: il rifiuto di un potere, realmente attivo all'interno di una comunità, richiede l'identificazione di tutti gli anelli della catena popolare con un principio identitario che cristallizzi tutte le differenti domande attorno a un denominatore comune, che esige ovviamente un'espressione simbolica positiva. Questo è il passaggio da quelle che abbiamo definito domande democratiche alle domande popolari. Le prime si possono soddisfare con l'espansione di una formazione egemonica. Le seconde rappresentano una sfida secca alla formazione egemonica» (pp. 76-77).
Quando si sviluppa questa frattura all’interno del popolo si ha un momento di caos che non è possibile dedurre in anticipo, ma che si crea liberamente nella storia. Da qui la differenza di Laclau con il marxismo classico, che partiva dal determinismo storico per dire che la classe operaia avrebbe sfruttato necessariamente le crepe del capitalismo per realizzare la rivoluzione socialista. La storia, almeno fino ad oggi ha smentito il determinismo storico, ma non le istanze sociali non soddisfatte dal potere di un determinato momento storico.
Ora, continua Laclau, quale tipo di rapporto si instaura tra il popolo che si fa totalità e il significante vuoto? Questo rapporto, ci dice Laclau, è di tipo affettivo e non di tipo razionale. E’ un rapporto che si basa sul desiderio che cerca una sua soddisfazione, impossibile, perché il desiderio non è mai soddisfatto in toto ma solo parzialmente, al contrario del bisogno che invece può essere soddisfatto.
Laclau sintetizza così il suo percorso analitico: «Di un'ultima, cruciale dimensione va tenuto ancora conto nella nostra analisi. Il nostro approccio al populismo ruota attorno alle seguenti tesi: (l) l'emergenza del «popolo» richiede il passaggio, via equivalenze, da domande isolate, eterogenee a una domanda «globale», che implica la formazione di frontiere politiche e la costruzione discorsiva del potere come una forza antagonistica; (2) dato però che questo passaggio non può essere dedotto da una mera analisi delle domande eterogenee, non c'è alcuna transizione logica, dialettica o semiotica da un livello all'altro — deve intervenire qualcosa di qualitativamente nuovo. Ed ecco perché la nominazione può avere gli effetti retroattivi che ho descritto. Questo momento qualitativamente differenziato e irriducibile è quanto ho battezzato «investimento radicale». Non mi sono ancora soffermato abbastanza, tuttavia, su questa nozione di «investimento». Le diverse operazioni di significazione a cui ho fatto riferimento fin qui possono spiegare le forme che l'investimento assume, ma non la forza in cui l'investimento consiste. È chiaro, nondimeno, che se una qualche entità diventa l'oggetto di un investimento — come accade nell'amore o nell'odio l'investimento appartiene necessariamente all'ordine degli affetti.» (p. 104)
«L'intero sarà sempre incarnato da una parte: non c'è universalità che non sia egemonica. Ma c'è anche di più: come negli esempi dei primi piani e del «valore-seno» del latte discusso da Copjec, non c'è nulla nella materialità delle diverse parti che predestini l'una o l'altra a fungere da totalità. Nondimeno, una volta che una certa parte abbia assunto simile funzione, è la sua materialità stessa di parte a diventare fonte di godimento. Gramsci formulò la questione politica in termini simili: quale forza sociale diventi la rappresentazione egemonica della società come un tutto è deciso ogni volta da una lotta contingente; ma una volta che una particolare forza sociale sia divenuta egemonica, essa rimarrà tale per un intero periodo storico. L'oggetto dell'investimento può essere contingente, ma certo non è indifferente — insomma, non può essere cambiato a piacere. Con ciò, abbiamo raggiunto una spiegazione esauriente di ciò che significa «investimento radicale»: rendere un oggetto l'incarnazione di una pienezza mitica. L'affetto (vale a dire il godimento) è l'essenza stessa dell'investimento, mentre il suo carattere contingente rende conto della componente «radicale» della formula.
Voglio spiegarmi bene su questo. Non abbiamo qui a che fare con omologie casuali o esteriori, ma con la stessa scoperta, fatta in due ambiti diversi — psicoanalisi e politica —, di qualcosa che riguarda la struttura stessa dell'oggettività. La principale conseguenza ontologica della scoperta freudiana dell'inconscio è che la categoria di rappresentazione non riproduce, a un livello secondario, una pienezza anteriore, che si potrebbe afferrare pure in modo diretto; piuttosto, la rappresentazione si impone come il livello assolutamente primario di costituzione dell'obiettività. Ecco perché non esiste significazione che non sia sovradeterminata sin dall'inizio. Essendo la pienezza della madre primordiale un oggetto puramente mitico, non è possibile agguantare la jouissance se non attraverso l'investimento radicale in un objet petit a (Lacan). In tal modo, l'objet petit a diventa la categoria ontologica primaria. Ma la stessa scoperta (non semplicemente una scoperta analoga) è stata fatta dalla teoria politica. Ne-suna pienezza sociale è raggiungibile se non attraverso l'egemonia. E l'egemonia non è altro che l'investimento, in un oggetto parziale, di una pienezza sempre sfuggente perché puramente mitica (è il rovescio positivo di una situazione sperimentata come «essere manchevole»). La logica dell'objet petit a e la logica egemonica non sono soltanto simili: sono identiche. Ecco perché, nella tradizione marxista, Gramsci rappresenta un momento di cruciale rottura epistemologica: mentre il marxismo tradizionale ha sempre nutrito il sogno di accedere a una totalità sistematicamente chiusa (determinata in ultima istanza dall'economia, ecc.), l'approccio egemonico rompe in maniera decisa con questa logica sociale essenzialista. L'unico possibile orizzonte totalizzante è dato qui da una parzialità (la forza egemonica) che diventa la rappresentazione di una totalità mitica. In termini lacaniani: un oggetto è elevato alla dignità della Cosa. L'oggetto dell'investimento egemonico non è, allora, un ripiego rispetto alla Cosa, che sarebbe di per sé una società interamente pacificata (una totalità sistematica che non richiederebbe più alcun investimento né alcuna egemonia): è semmai il nome che la pienezza riceve all'interno di un certo orizzonte storico, un nome che in quanto oggetto parziale di un investimento egemonico non è un semplice surrogato, ma il punto di raccordo di attaccamenti appassionati.» (pp. 109-110).
Da qui in poi Laclau complessifica la sua analisi riconoscendo che in una società ci sono più linee di frattura, a volte in concorrenza anche sulle stesse domande sociali insoddisfatte. Infatti. il potere può controbattere l’iniziativa populista con un’azione che mira o al suo inglobarla nell’istituzione o a dargli una risposta diversa.
Egli riepiloga così il cammino intrapreso: «La nostra esplorazione giunge così al termine. L'emergenza del «popolo» dipende dalle tre variabili che ho messo in rilievo: rapporti equivalenziali rappresentati egemonicamente da significanti vuoti; spostamenti delle frontiere interne tramite la produzione di significanti fluttuanti; e un'eterogeneità costitutiva che rende impossibile qualsiasi ricucitura dialettica, conferendo un'autentica centralità all'articolazione politica. Abbiamo raggiunto in tal modo una nozione più elaborata di populismo» (pp. 147-148).
Tutta questa disanima del pensiero di Laclau, che ha utilizzato anche i fatti italiani al tempo di Berlusconi e Bossi, essendo l’originale del libro del 2005 (cfr. pp. 172-181), ci può aiutare a comprendere cosa sta succedendo in Italia dopo le elezioni politiche del 2018 come ho proposto all’inizio.
Posso affermare che lo scontro in atto è forte e approfondire quali siano le catene equivalenziali e i loro simboli vuoti potrebbe essere di aiuto per costruire una alternativa politica significativa che tenga conto delle domande sociali insoddisfatte e degli affetti che queste generano.
In effetti queste domande sociali si sono attaccate a chi le ha riconosciute in quanto tali, al di là di quali possano essere le effettive soluzioni possibili nel contesto nazionale e internazionale dato, sapendo bene che la storia non è mai predeterminata e che è mutevole nel suo esplodere in crisi sociali e istituzionali che producono scenari sempre nuovi, e a volte veramente sorprendenti, come stiamo vedendo in questo 2018.
Un altro punto di vista interessante, perché eterodosso rispetto alla vulgata sul populismo, è quello di Marco D’Eramo, “Apologia del populismo”, Micromega, 4/2013, pp 9-39. Dopo una lunga disanima storica su chi ha usato e si è definito populista tra fine Ottocento e metà Novecento, tra cui alcuni presidenti americani democratici, D’Eramo mostra come negli anni della guerra fredda populismo è categoria utilizzata dalla borghesia per etichettare sia i fascismi che i comunismi sotto un’unica categoria: il popolo che inclina al dispostismo e al totalirismo, minacciando così la vita democratica.
In questo modo, secondo D’Eramo, la classe dei ricchi, vincente, si pone al centro e definisce le politiche ad essa favorevoli, politiche di centro, spostando così lo spazio politico più a destra.
Da qui quattro fattori diventano importanti: sul piano discorsivo non si parla più di classi e di lotta di classe, almeno in Europa. Diverso il discorso per gli Stati Uniti. Un secondo fattore è la crescita di istituzioni non a controllo democratico, come per esempio le banche centrali, o gli enti sovranazionali come l’ONU o l’Unione Europea, che influenzano consistentemente le politiche nazionali. Un terzo fattore, dopo la riduzione di sovranità popolare sulle scelte economico-fiscali, è quella di poter scegliere solo tra centro-centro-destra e centro-centro-sinistra, cioè due politiche praticamente identiche. Il quarto fattore è che l’oligarchia economica si sottrae sempre più alla legislazione ordinaria, si ritrova quasi sopra la legge he vale per il popolo. «Come da ragazzini giocavamo a indiani e cow-boy, così la nostra società è tornata a giocare in grande a patrizi e plebei, ottimati e masnada» (p. 36).
D’Eramo conclude così il suo articolo, sottolineando che coloro, tra i vincenti, che definiscono qualcuno populista, mostrano la loro falsa coscienza: essere dei vincenti che impongono con la forza del denaro le proprie politiche e, invece, voler apparire come i veri democratici, cioè coloro che hanno a cuore il bene del popolo.
«Qui culmina la parabola del termine populismo, nel particolare momento storico in cui tutto il mondo sembra precipitato in un dispotismo oligarchico e dove perciò è tornata in auge l'opposizione tra oligarchi e plebei. Un mondo in cui vanno imposte politiche antipopolari, proprio quando parola popolo è scomparsa dal lessico politico: chiunque si opponga alle politiche antipopolari è tacciato di «populismo» […] E questa è una delle ragioni per cui sempre più movimenti vengono definiti «populisti», perché si moltiplicano le misure antipopolari: vuoi la sanità per tutti? Sei proprio un populista (soprattutto negli Stati Uniti). Vuoi la tua pensione indicizzata sull'inflazione? Ma che razza di populista! Vuoi poter mandare i tuoi figli all'università senza svenarti? Lo sapevo che sotto sotto eri un populista! È così che i giullari dell'oligarchia tacciano di populista qualunque istanza popolare. E proprio nel, momento in cui svuotano la democrazia da ogni contenuto, accusano di «pulsioni autoritarie» chiunque si opponga a questo svuotamento, proprio come le vittime inermi degli sfratti vengono accusate di essere aguzzini nazisti. L'uso inflazionato del termine «populismo» da parte degli ottimati ci disvela così un'inquietudine più recondita. Psicologia d'accatto per psicologia d'accatto, come il coniuge adultero è sempre il più sospettoso nei confronti del proprio partner, così chi più attenta alla democrazia, più vede minacce dappertutto. Straparlare di populismo fa trapelare quindi un senso di colpa, una coda di paglia, il sentore di stare esagerando, di andarci giù troppo duri, il timore dell'hybris popolare. Il mormorio più fievole di dissenso, il mugugno più timido si trasforma allora in segnale allarmante, a preannunciare il minaccioso grondare di tuono che rischia di irrompere nei salotti ovattati di potenti che si credono al sicuro, ma sbirciano sempre ansiosi dietro le tende per percepire il minimo stormir di popolo: «Vade retro vulgus!». (pp. 38-39).
Isaia Sales, Storia dell’Italia mafiosa. Perché le mafie hanno avuto successo, Rubbettino, 2015, pp. 444, euro 19,50
La violenta e seducente cultura mafiosa
Questo è un libro ruvido, che gratta la pelle di chi è sensibile e scorre via sulle dure pelli di coloro che in qualche modo condividono la cultura mafiosa: «Ci sono, dunque, affinità forti tra una certa politica e la mafia, cambiano solo le modalità di operare (con la violenza i mafiosi, con il voto i politici). Due forme di potere che si intrecciano e non si respingono perché basate sulla stessa concezione della cosa pubblica: un bene a disposizione di chi se ne impossessa e la violenza come una delle forme possibili per questo obiettivo. Dentro la cultura della privatizzazione del pubblico è quasi impossibile tenere fuori i mafiosi» (p. 402).
Isaia Sales insegna “Storie delle mafie” all’Università sant’Orsola Benincasa di Napoli, saggista e coautore dell’Atlante delle Mafie edito da Rubbettino.
La sua profonda conoscenza del fenomeno mafioso la mette a disposizione, con una passione viva e controllata, a favore di una comprensione originale del fenomeno mafioso nel sud d’Italia, tenendo presente le diverse condizioni storiche e sociali in cui sono nate la camorra, la mafia e la ‘ndrangheta, e più tardi la Sacra Corona Unita, ma evidenziando gli aspetti comuni che ne hanno favorito la nascita e la prosperità nel tempo.
La tesi di fondo è che la fragilità dello Stato unitario e l’alleanza politica degli imprenditori del nord con i latifondisti del sud per impedire alle masse popolari di accedere a condizioni di vita migliori, ha offerto le condizioni affinché i violenti del popolo potessero partecipare al potere traendone i maggiori benefici economici senza partecipare ai doveri del governo. Caso sostanzialmente unico nella storia di ascesa sociale di strati popolari intraprendenti e disposti ad usare la violenza, senza passare per una rivoluzione.
Le puntuali analisi storiche degli inizi delle mafie, ad esempio i riti di iniziazione camorristici mutuati dalle società segrete (carboneria, massoneria, ecc.) dei borghesi, le condizioni di relativa prosperità economica di alcuni territori che necessitavano di una regolamentazione degli affari economici e della giustizia che lo Stato non era in grado di assicurare e che è stato assunto dalle mafie con un trasferimento dell’uso della violenza dallo Stato a privati cittadini, aprono ampi squarci di luce sui processi ancora in corso oggi. Per esempio il fatto che la ‘ndrangheta oggi sia la mafia più forte e che, contemporaneamente, sia anche quella che si è affiliata alla massoneria (o forse anche viceversa, attualizzando così un legame con le origini) entrando in un circuito di relazioni internazionali molto più vasto di quello che solo i legami di parentela con gli emigrati non avrebbe permesso.
Sales argomenta in modo piuttosto stringente, con una serie di fatti storici oramai acclarati, che c’è stata una collusione tra parti della classe al potere e mafiosi, per raggiungere scopi diversi, ma convergenti: mantenere il potere le classi dirigenti, arricchirsi con la violenza le mafie.
Di fatto lo scopo dei mafiosi è quello di accumulare denaro, e in questo non si discostano dai capitalisti, ma il metodo che usano è quello dell’uso o della minaccia credibile della violenza per sottrarlo a chi lo possiede. Essi non producono nuova economia, ma parassitano quella esistente. E questo continuerà ad accadere finché lo Stato non sarà in grado di avocare a sé il monopolio della violenza e garantire una giustizia veloce ed equa.
L’analisi della storia delle mafie è una stringente analisi del potere, della violenza e dell’accumulo della ricchezza in questi ultimi due secoli di storia italiana.
Dal punto di vista strettamente culturale oggi la mafia non gode più di buona reputazione, come è accaduto per molti anni, ma «è nel livello politico, economico e istituzionale che va rimarcata ancora una presa notevole della potenza del fenomeno mafioso» (p. 405).
La questione delle mafie è dunque questione nazionale, perché così è stato nel passato e lo è ancora di più oggi che vede il radicamento mafioso anche al centro e al nord, in luoghi che si ritenevano immuni, ma che tali non sono stati, perché la questione mafiosa è, soprattutto, una questione economica.
«La storia delle mafie è in sostanza il disvelamento della funzione debole dello stato italiano nell’impatto con un territorio che avrebbe avuto bisogno, per liberarsi delle forme violente prestatuali, di un diverso radicamento dello Stato e della rottura radicale con quelle classi dirigenti alleate con le mafie» (p. 408).
E’ un libro da leggere con molta attenzione nella sua articolazione storica, sociale, economica, del potere e della violenza, esauriente e puntuale, perché aiuta a una visione più realistica delle mafie e quindi anche a una maggiore capacità e forza d’animo per contrastarle nella vita quotidiana.
Invito alla lettura
La mafia siciliana fu integrata e legittimata nello Stato che nasceva perché si aveva bisogno della Sicilia e di chi la rappresentava. I piemontesi non capivano e disprezzavano i mafiosi, ma ne avevano bisogno per estendere la loro influenza (p. 25)
Insomma si dà mafia quando la violenza privata viene riconosciuta come potere dal potere ufficiale (p. 31)
Un imprenditore edile del nord ha dichiarato ai magistrati: «quando mi fu sottoposta la richiesta del sub appalto ai Barbaro, da un certo punto di vista trovai la cosa conveniente per la mia impresa». Appunto la convenienza. La ‘ndrangheta si è inserita nell’economia legale perché si è dimostrata in grado di offrire servizi che inizialmente sono sembrati vantaggiosi per le imprese del settore. In definitiva, ciò che sta avvenendo al nord ci dice in maniera incontrovertibile che le mafie non sono frutto di un modo di essere, di una cultura, di una mentalità, di una predisposizione naturale, ma innanzitutto di convenienze, di opportunità economiche e di potere (p. 52)
Con le mafie la violenza diventa strumento e modalità di influenza sociale e politica (p. 88)
Le mafie non si limitano a imitare i modelli organizzativi della massoneria o delle società segrete, ma usano come modello il successo della violenza degli aristocratici (p. 88)
Dai nobili essi copiano soprattutto il modello di erogare violenza e di sfuggire alla punizione. L’onestà è considerata eticamente sbagliata perché non fa muovere la ricchezza (p. 89)
L’organizzarsi in «società» è un reciproco proteggersi, è una chance per emergere, è una educazione alla vita violenta. E’ un metodo (p. 92)
Infatti ciò che caratterizzerà i fenomeni mafiosi in Italia non sarà il loro restringersi in campagna o nel latifondo, ma la capacità di esportare il metodo mafioso (arricchirsi con la violenza, integrandosi nella società, in tutte le attività economiche, legali o illegali che fossero, bisognose di essere regolate dalla violenza (p. 96)
Le mafie fin da subito si presentano come forme di ascesa sociale tramite la violenza. Certo, per gli strati popolari c’erano poche occasioni per uscire dalla miseria, ma le mafie non puntano a uscire dalla miseria, il loro scopo è di cambiare radicalmente status e puntare ai vertici deal società. Ed è questa la novità e l’originalità, perché fino ad allora la violenza come forma di realizzazione di potere e di benessere era stata usata solo dalle classi superiori e mai da quelle inferiori della scala sociale […] La criminalità di tipo mafioso è l’unica forma di violenza popolare che ha avuto successo pur non derivando dai ceti possidenti. L’unica forma che non deriva dalla ricchezza già posseduta. Questa è la differenza fondamentale con le precedenti forme criminali (p. 98)
L’altra grande originalità delle mafie, rispetto alle criminalità che le avevano precedute, consiste nel rapporto e nelle relazioni con i ceti proprietari e con le classi dominanti […] i mafiosi – pur difendendo gli interessi dei ceti proprietari – stabiliscono rapporti paritari con essi, non più subalterni (p. 99)
Le azioni delle mafie sono orientate più a strumentalizzare il potere delle istituzioni legittime, o a corromperle, piuttosto che a osteggiarle (p. 100)
I mafiosi comprendono che la violenza è una capitale prezioso ma al tempo stesso precario. Solo se disciplinata e piegata ad una strategia essa riesce a ergersi a potere stabile, altrimenti diventa cieca ed animalesca, si spreca e si ritorce contro chi la usa perché espone alla reazione di altri violenti e delle forze di sicurezza istituzionali […] I riti e le regole ferree rispondono al bisogno di disciplinare la forza bruta e di incanalarla verso il raggiungimento di potere e ricchezza (p. 101)
In definitiva, se la forza e la violenza sono usate per far rispettare la legge, ciò si chiama Stato. Se la forza e la violenza sono usate per ottenere benefici per sé e danneggiare altri, ciò si chiama delinquenza o criminalità. Se ka forza e la violenza sono usate fuori dalla legge, ma in relazione con settori che rappresentano lo Stato o riconosciute come legge da altri, allora ciò si chiama mafia (p. 102)
I mafiosi apprenderanno la lezione e, proveranno a trasformare l’immunità dei feudatari in impunità permanente per i loro delitti, e ci riusciranno almeno fino agli anni ’80 del Novecento (p. 127)
Ora la violenza è più «libera», non è al soldo dei feudatari, si mette in proprio. Non ha più bisogno di padroni. Questa è la sconvolgente novità dell’epoca. Insomma, con al fine del feudalesimo la violenza diventa più «democratica, cioè più accessibile a tutti coloro che la richiedevano per dirimere controversie o aumentare il loro potere. E la violenza, diventata più libera, si mise al servizio di chi ne aveva bisogno in privato, sul mercato della proprietà terriera e del voto […] dal feudo passa al mercato (p. 130)
Metodo mafioso = arricchirsi e riuscire nella vita con l’uso della forza e dell’intimidazione (p 134)
Il mafioso è nella storia il superamento del bandito, non perché i banditi e i briganti scompaiano dopo il suo affermarsi, ma perché il mafioso riesce a dare vita a una criminalità diversa, che chiameremo «di relazione». Si tratta di una criminalità evoluta, perché si relaziona stabilmente con il potere e perciò avrà successo (p. 136)
Il mafioso è un operatore di potere (p. 141)
(la mafia ha una) doppia funzione: ascensore sociale per violenti in una società in cui la violenza privata finisce per diventare una risorsa; fattore di equilibrio in realtà dove l’insicurezza pubblica domina (p. 143)
Mafia è unione di autorevolezza e violenza (p.143)
La violenza dei mafiosi non si rivolge (per la prima volta dopo secoli) solo verso il basso della società, ma si estende anche verso l’alto. Quando mai era successo che un esponente del popolo potesse colpire dei potenti e passarla liscia? (p. 144)
Ai fini del successo della violenza popolare occorre il consenso permanente delle classi agiate e di che regge la cosa pubblica. Una violenza per avere successo stabile deve essere utile agli interessi delle classi dominanti o di una loro parte. Perciò i mafiosi cercarono il favore di una parte del popolo e le protezioni dei potenti. Le due cose insieme, e contemporaneamente, mai nessuna violenza privata le aveva ottenute nel corso della storia. (p. 146)
Il mafioso è un ordinatore del mondo della violenza e in questa funzione si presenta all’interlocuzione con i rappresentanti dello stato e delle classi dirigenti (p. 205)
I mafiosi, ci piaccia o no, possono essere inclusi nella categoria economica di imprenditori (p. 273)
Non esiste mafia, non si dà mafia, se non in legame con il denaro e le attività economiche (p. 275)
La violenza, insomma, coni mafiosi entra a pieno titolo nelle relazioni di mercato […] Non c’è contrapposizione tra mercato e violenza, tra economia legale e illegale, e le mafie ne sono la più autentica e duratura dimostrazione (p. 276)
La nobilitazione del capitalismo, e lo sforzo di legarlo indissolubilmente a democrazia e legalità, ci ha fatto perdere di vista che un modo di produzione capitalistico può contenere tranquillamente elementi di mediazione parassitaria e di rendita, che ne formano una parte essenziale in determinati contesti storici (p. 277)
L’economia è molto più aperta della rigida regolazione della legge. Si può fare economia anche fuori o addirittura contro la legge (p. 278)
Che rapporto c’è tra i mafiosi e gli imprenditori violenti del capitalismo degli albori? La differenza fondamentale consiste in ciò: la spregiudicatezza del mafioso è sempre all’interno di attività speculative, prima dentro la rendita fondiaria, poi nei circuiti di intermediazione del commercio, dentro lo sfruttamento e il condizionamento di risorse altrui, private o pubbliche. Il suo modello è indubbiamente il parassitismo del signore, del barone, non l’intraprendenza dei primi capitalisti (pp. 281-2)
Se si vuole dare il nome di «industria» alla violenza del mafioso, come sostenne appunto Leopoldo Franchetti, lo si può definire «un industriale della speculazione», un regolatore della violenza ai fini di ottenere una rendita, un profitto speculativo dalla produzione e dalla proprietà altrui, che regola la violenza come un capitale in grado di incidere sull’economia (p. 282)
I fenomeni criminali di tipo mafioso sono, in sintesi, caratterizzati dall’utilizzo della violenza come capitale per produrre e assicurarsi ricchezza (p. 318)
Tutte le transazioni illegali avvengono tramite il ricorso a uno strumento legale per eccellenza, cioè la moneta. E inoltre se il mercato legale fosse un mercato trasparente l’imprenditore criminale sarebbe immediatamente identificato ed estromesso, ma non lo è (p. 320)
In definitiva l’economia mafiosa è un’economia parassitaria, fa circolare ricchezza (e dunque crea consenso) ma appartiene fino in fondo all’economia speculativa (p. 323)
E moltissime altre riflessioni interessanti.
Roberto Perotti, Staus quo. Perché in Italia è così difficile cambiare le cose (e come cominciare a farlo), Feltrinelli, Milano 2016, pp. 199, euro 16,00
«A parole tutti vogliono ridurre il debito pubblico in rapporto al PIL. Ci sono solo due modi per farlo: spendere meno di quanto lo stato incassa in tasse, oppure sperare che il Pil cresca a ritmi mai visti negli ultimi decenni. E' straordinario come questa verità semplice, ineludibile e apparentemente ovvia sia ignorata da quasi tutti coloro che intervengono nel dibattito pubblico: politici, giornalisti, commentatori, economisti, conduttori e partecipanti ai talk-show» (p. 159)
Roberto Perotti, economista, già professore negli USA, è ora professore ordinario di Economia Politica alla Università Bocconi. Da settembre 2014 a novembre 2015 è stato consigliere economico, a titolo gratuito, del presidente del Consiglio Matteo Renzi lavorando alla revisione della spesa pubblica assieme al commissario Yoram Gutgeld, incarico da cui si è dimesso: «Il mio dissenso dall'approccio scelto dall'esecutivo era dovuto a due motivi ben diversi. Ritenevo che si dovesse mantenere l'impegno di tagliare lea spesa di 10 miliardi, e possibilmente anche di più, e destinare il risparmio a un ulteriore taglio delle tasse; non tanto perché pacta servanda sunt, ma perché era la cosa giusta da fare, per tutti i motivi esposti in questo libro. Inoltre, dissentivo dall'impianto della legge di Stabilità, che come unico e vero taglio di spesa proponeva due miliardi di taglio alla sanità ma nessun taglio dei costi della politica né ai tanti privilegi dei dirigenti di vario tipo. Nonostante tutto è stata una esperienza molto proficua e interessante. Ho imparato moltissimo, e la stragrande maggioranza delle persone che ho incontrato era, ne sono convinto, genuinamente dedita al bene comune, anche se non sempre ne condiviso metodi e proposte» (p. 182-183)
Ha scritto questo interessante e istruttivo libro nel 2016, lo ha consegnato a luglio e a settembre è uscito in libreria, questo per meglio comprendere la tempistica rispetto a ciò di cui non parla. Ricordo che la sua esperienza è successiva a quella di Cottarelli come commissario alla revisione della spesa, riassunta nel volume "Il macigno" recensito anche in questo sito.
Il suo libro ha un leit-motive: "chinare la testa e lavorare", che ritorna spesso qua e là, punteggiando l'analisi approfondita di come poter risparmiare sulla spesa pubblica: secondo Perotti spesso le decisioni vengono prese senza una seria e approfondita analisi sui numeri (perché di questo si tratta) che riguardano le varie voci di spesa. L'autore è convinto che senza questa analisi sui fatti, perché i numeri sono fatti, non si può giungere a una decisione ragionevole che tenga conto anche dei vincoli sociali e politici, cui riconosce la loro legittimità nel processo decisionale complessivo.
Inoltre Perotti ritiene che la classe dirigente ministeriale abbia maggiori competenze legislative, necessarie ma non sufficienti, che di analisi economica, oltre che una scarsa attenzione a quanto è già stato sperimentato e realizzato in altri paesi europei simili al nostro (tipo Regno Unito, Francia, Germania,...) da cui poter prendere il meglio e quello che potrebbe essere utile per realizzare ciò che si desidera per il bene del nostro paese.
In ultimo l'autore ritiene che i dirigenti pubblici, che avanzano di carriera per anzianità, più che per valutazioni e meriti, non abbiano sufficienti incentivi che li aiutino a prendere iniziative per studiare meglio i dossier su cui devono poi offrire le condizioni ai politici per prendere decisioni quanto più possibili ragionevoli.
C'è quasi una "banalità del male" (Hanna Arendt), pur con i dovuti e necessari distinguo, come ha sottolineato anche con vigore la filosofa Roberta De Monticelli nel pamphlet "Al di qua del bene e del male" recensito in questo sito: «la metamorfosi interiore inconsapevole, invisibile a chi la subisce (o vi cede, ma come senza prenderne atto), che è l'autodestituzione del soggetto morale in noi [...] o felpata distruzione di senso e di bene» (p. 4).
Mi hanno meravigliato piacevolmente i criteri che Perotti utilizza per valutare i risparmi di spesa, ma soprattutto per vedere se vale la pena o meno di mantenere certe spese a scapito di un utilizzo diverso degli stessi fondi. Emerge da questa sue valutazioni una sensibilità economico-sociale-politica che sorprende in un "bocconiano" e che piacerebbe a molti vedere all'opera in un normale governo italiano.
Una scorsa all'indice ci mette di fronte ai nuclei centrali della riflessione di Perotti: non accettare lo status quo (cap. 1); le scelte difficili (cap. 2); i privilegi della classe dirigente e l'evasione fiscale: il peso delle aspettative eccessive (cap. 3); come decidere (cap. 4); riforme riuscite, riforme incomplete e opportunità mancate (cap. 5); la "sensibilità politica e sociale" (cap. 6).
Per chi vuole "risparmiare", ma perdere in gusto e pensieri possibili, Perotti riassume nel capitolo 7 le 20 lezioni apprese in questa sua esperienza e che mette a disposizione con questo libro. Inoltre il libro è supportato da tabelle e approfondimenti reperibili in un file PDF (allegare) con innumerevoli link interni, reperibile anche al seguente indirizzo web: www.feltrinellieditore/statusquo.
Questo libro aiuta ad avere più chiare le possibilità reali di riduzione della spesa (sfatando miti da talk-show politici, ma anche vulgate da web), e questo migliora la qualità della comunicazione pubblica. Inoltre suggerisce, tra le righe, una possibile battaglia politica della società civile per riformare in meglio il processo decisionale su questioni importanti che riguardano il bilancio dello stato, visto che difficilmente il pubblico lo farà di propria volontà, se non incalzato dall'opinione pubblica. Qualcuno è interessato a questo aspetto non secondario, ma poco presente nelle analisi sui mali italiani, che influenza in modo significativo la vita democratica del nostro paese?
Il libro si legge tutto d'un fiato, piacevole nella scrittura, chiaro e sintetico quanto basta per comprendere i molteplici aspetti della recisione della spesa pubblica. Necessario per chiunque voglia pensare e agire in modo consapevole dei vincoli di bilancio, ma anche delle possibili alternative al nostro modo di spendere i soldi pubblici, cioè i nostri soldi.
Invito alla lettura
Certo, non esistono riforme che accontentino tutti, sarebbe troppo bello. Ma ci sono modi per far sì che le riforme non costino voti, e non danneggino le fasce deboli della popolazione: cioè che siano "politicamente" e "socialmente" fattibili. Per realizzarle spesso ci vogliono risorse, per esempio per aiutare le fasce deboli nella transizione. Queste risorse non cadono dal cielo: bisogna dunque compiere delle scelte. Ecco perché la "revisione della spesa" è di vitale importanza: non solo e non tanto per una questione macroeconomica (tenere il disavanzo e il debito pubblico sotto controllo), ma soprattutto per liberare risorse la fine di migliorare la qualità della spesa, rendere possibili le riforme, e abbassare le tasse. (p. 12)
Un secondo tema di questo libro concerne il metodo di lavoro per attuare le riforme. Si pensa spesso che dietro al loro fallimento ci siano manovre e contromanovre politiche, veti incrociati, personalismi e biechi interessi. C'è anche questo, ovviamente. Sono convinto, però, che spesso i motivi siano molto più banali: la pigrizia intellettuale, la mancanza di tempo, voglia o preparazione per studiare e comprendere i problemi; la superficialità; la decisione di delegare ad altri senza accettarsi che abbiano le competenze e gli incentivi corretti per fare un lavoro adeguato. Le riforme non si possono concepire nei convegni, nei comizi, nelle interviste ai giornali, alle assemblee di partito, negli incontri di rito con le parti sociali, e nemmeno nelle riunioni tra capi di gabinetto dei ministeri. Per fare scelte ponderate bisogna sporcarsi le mani con i dati; bisogna uscire dal provincialismo e informarsi sulle esperienze degli altri paesi; bisogna studiare le alternative dal punto di vista del cittadino utente, cosa più difficile che basarsi sui colloqui con i lobbisti, i sindacalisti, gli imprenditori, o i fautori dello status quo per comodità. In altre parole, bisogna "chinare la testa e lavorare". Può sembrare una tesi banale, ma, come vedremo, ha implicazioni tutt'altro che banali. (p. 13)
Purtroppo manca ancora un passaggio, lo stesso che era mancato a Berlusconi. Abbiamo visto che il vincolo di bilancio è impietoso: per ridurre le tasse seriamente, prima o poi bisogna ridurre la spesa. Al di là degli annunci e delle dichiarazioni occasionali, pochi tra coloro che vogliono tagliare le tasse sono preparati a un'azione seria e ben studiata di riduzione della spesa. Soprattutto, e questo sarà uno dei temi principali di questo libro, manca la consapevolezza delle grandezze in gioco: se si vuole ridurre le tasse di 50 miliari (il 3 per cento del Pil, per portare la pressione fiscale da un soffocante 43 per cento a un ancora troppo alto 340 per cento), non basta ridurre la spesa di 3 o 4 miliardi, bisogna essere preparati a ridurla di qualche decina di miliardi. E questo non si fa dalla sera alla mattina. (p. 25)
Personalmente ritengo che la decisione di rinnegare l'impegno con l'Europa e di aumentare il disavanzo di bilancio del 2016 (rispetto al piano iniziale) di circa 1 punto di Pil sia stata corretta: in un periodo di recessione la riduzione del debito pubblico può aspettare, sarebbe stato rischioso aumentare l'Iva di quasi 20 miliardi. L'errore è stato un altro: rinnegare l'impegno di ridurre la spesa pubblica. Si dovevano diminuire le tasse ancor più della spesa, generando una manovra espansiva ma dando un segnale importante ai cittadini e all'Europa. (p. 34)
I privilegi della classe dirigente hanno un'enorme visibilità e generano il peggiore dei mali che affligge la nostra società: il cinismo. Allontanano i cittadini, soprattutto i giovani, dalla cosa pubblica; incoraggiano teorie del complotto, questo male tipicamente italiano che viene usato da chi non ha soluzioni costruttive ai problemi; alimentano la disinformazione, perché quando si vedono complotti e privilegi intoccabili dappertutto non si ha né interesse né incentivi a informarsi sui fatti; e di conseguenza impediscono una discussione razionale dei problemi. (p. 41)
Ma l'Italia è un paese in guerra, contro i due peggiori nemici: la disoccupazione giovanile e il cinismo. (p. 43)
La seconda "soluzione" a ogni problema che inevitabilmente emerge in ogni discussione è la lotta all'evasione. L'evasione fiscale è una piaga endemica; ma sperare di ricavarne più di pochi miliardi nel breve periodo è un'illusione. (p. 85)
Cosa significa tutto questo? Che in media i programmi assistenziali in Italia hanno scarsa capacità redistributiva. In altre parole, non sono efficaci nel raggiungere i meno abbienti. In Svezia, invece, ogni euro di trasferimenti pubblici è molto più efficace nel raggiungere i più indigenti e ridurre la povertà [...] Se a questo si aggiunge che al disoccupazione giovanile al Sud raggiunge la cifra astronomica del 50 per cento, credo che i dati indichino abbastanza chiaramente una delle priorità assolute della spesa pubblica. (pp. 90-91)
E' l'esempio perfetto dell'eterna illusione dei politici di poter trasformare il piombo in oro, cioè di poter trovare scappatoie al vincolo di bilancio senza dover fare scelte difficili; un esempio della straordinaria superficialità con cui si usano i soldi del contribuente. (p. 96)
Questo semplice confronto la dice lunga sul problema principale della spesa pubblica italiana: la mancanza di priorità e di un approccio globale. (p. 101)
Perché questa immutabilità dello status quo in casi così evidenti di cattiva allocazione delle risorse? Non è una questione di vincoli politici. Non è nemmeno una questione di sensibilità sociale: anzi, in questi casi mantenere a tutti i costi lo status quo è precisamente indice di mancanza di sensibilità sociale. La mia impressione è che sia per lo più una questione di inerzia, pigrizia, noncuranza, incompetenza e mancanza di organizzazione. Nessun dirigente prenderà mail 'iniziativa di proporre un cambiamento senza un input dall'alto, perché studiare il problema e stendere una proposta potrebbero rivelarsi una perdita di tempo se al momento buono viene tutto bloccato. [...] Il risultato è lo status quo, anche quando non c'è nessun impedimento politico, e moltissimi motivi di sensibilità sociale, per modificarlo. (pp. 104-105)
La buona borghesia milanese che ogni anno fa bella mostra di sé alla prima della Scala potrebbe benissimo pagare per l'intero evento invece di farsi sussidiare dal disoccupato del Sud. (p. 105)
Anche la riforma della Rai si è scontrata con i due problemi endemici del processo decisionale della politica italiana: la tendenza a risolvere i problemi stanziando più risorse, e a concentrarsi sugli aspetti formali e legali. Nessuno di questi due approcci aiuta a risolvere le difficoltà di fondo, anzi, come nel caso della Rai, spesso le aggrava. (p. 130)
C'è poi un'altra questione che non viene mai menzionata. Le gare dei trasporti pubblici locali sono quasi sempre disegnate a misura del concessionario esistente, inibendo così una vera concorrenza. Come sempre, questo succede per le inevitabili connivenze tra i politici locali e i concessionari di servizi pubblici, che si scambiano favori a vicenda. Ma molto più spesso di quanto si creda, anche in questo settore è una questione di superficialità, disinteresse, mancanza di informazione, incompetenza in materia. Quando fu fatto notare a un presidente di una regione che la gara per l'appalto del trasporto locale era scandalosamente a favore del concessionario, la risposta fu "non me ne ero reso conto". Ancora una volta, è molto più facile sostituire l'ennesimo amministratore delegato che studiare le radici del problema. (p. 148)
Si dice spesso che il problema dei sussidi è che vengono dati a pioggia. Non sono d'accordo. Il problema dei sussidi è che, quasi sempre, non dovrebbero esistere. A pioggia o no è irrilevante. Anzi, spesso l'alternativa è peggiore. (p. 151)
Dimenticavo: c'è un quarto significato possibile della nozione di sensibilità politica e sociale: "la genuina empatia per i problemi e le sofferenze altrui". (p. 157)
Tutte le volte che qualcuno propone un piano grandioso per ridurre le tasse o aumentare la spesa, o anche solo tutte le volte che governo, opposizione, sindacalisti, economisti, vescovi, giornalisti o pubblico del talk show propongono di aumentare la spesa per questo o quello, per quanto nobile possa sembrare l'esborso, chiedetevi e chiedetegli: come intendi pagare? (p. 160)
Per fare le riforme non ci si può affidare all'iniziativa dell'interno dei ministeri, per un motivo molto semplice: essi sono immersi nei meccanismi delle attività che dovrebbero riformare. Per un dirigente il compito principale è gestire al meglio il capitolo di spesa di cui è responsabile, non di riformarlo [...] i ministeri non sono strutturati in modo da canalizzare eventuali proposte di riforma da parte dei funzionari interni, e di conseguenza questi ultimi non hanno alcun incentivo a pensare approcci alternativi. Infine, per la mentalità giuridica prevalente nei ministeri, "se qualcosa esiste, ci sarà un motivo". (p. 161)
Precisamente perché fare delle scelte è difficile e richiede un investimento in tempo, informazioni e preparazione, è facile soggiacere alla tentazione di ridurre la spesa, ma evitando di scegliere: i famosi tagli lineari. (p. 162)
Per comprendere un fenomeno e risolverne i problemi, bisogna misurarlo. (p. 166)
Due approcci pervadono il processo decisionale in Italia. Il primo è la nozione che i problemi si risolvano con prescrizioni e proibizioni in leggi, decreti, articoli e commi che tentano di svuotare il mare con il secchiello, definendo con illusoria precisione ogni fenomeno e prevedendo ogni fattispecie [...] L'arma dei giuristi sono le norme; l'arma dei politici i soldi. Il secondo approccio onnipresente nel processo decisionale italiano consiste nello stanziare più denaro. (pp. 168.170)
Qualsiasi tipo di riforma si abbia in mente, è molto probabile che qualche altro paese si sia posto il problema prima di noi. Ovviamente ogni stato ha le sue peculiarità, ma conoscere le esperienze degli altri, le difficoltà che hanno incontrato, i successi e i fallimenti che hanno ottenuto, non può che essere d'aiuto. (p. 171)
La lezione è importante, anche se in apparenza banale: le competenze contano. Non sempre questo principio viene rispettato ai tavoli ministeriali. (p. 172)
Che cosa hanno in comune tutti questi esempi? Tutti ipotizzano che con pochi soldi pubblici si scateni un effetto gigantesco sul Pil, in alcuni casi pari a venti o trenta volte i fondi pubblici stanziati (ironicamente, questo è molto simile all'"effetto leva" su cui, in altri contesti, facevano affidamento le istituzioni finanziarie che hanno scatenato la crisi del 2008, e che tante critiche hanno ricevuto dall'establishment politico di tutti i paesi). Ma veramente qualcuno pensa che nella realtà esiste un moltiplicatore della spesa pubblica di 30? Come è possibile essere così drammaticamente sprovveduti? (p. 178)
Carlo Cottarelli, Il Macigno. Perché il debito pubblico ci schiacci e come si fa a liberarsene, Feltrinelli, Milano 2016, pp. 174, euro 15,00
Formiche per un poco: una via prudente per tornare a respirare
Carlo Cottarelli, ai più, non ha bisogno di presentazioni. Lavora al Fondo Monetario internazionale dal 1988 dopo una laurea a Siena e alla London School of Economics, quando ancora non si andava all'estero come oggi per studiare. Ha lavorato in Banca d'Italia e poi all'Eni, ed è stato commissario straordinario per la revisione di spesa da ottobre 2013 a novembre 2014, chiamato da Renzi, per cercare di ridurre e razionalizzare la spesa pubblica. Questo è l'incarico che gli ha dato notorietà in Italia.
In questo libro di marzo 2016 Cottarelli, con linguaggio chiaro e semplice, che nasce da una grande competenza, spiega perché all'Italia convenga ridurre il debito e la strategia migliore per riuscirci.
Nei primi capitoli illustra cosa sia il debito di uno stato, come è composto, da chi è detenuto, come si forma, riferendo queste nozioni base al caso italiano. Qui cita la ricostruzione storica del rapporto debito/PIL dal 1981 al 2009 fatta dalla Banca d'Italia https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2008-0031/QEF_31.pdf, e per un ulteriore approfondimento su come si sono spesi i soldi si può vedere il seguente documento della Ragioneria Generale dello Stato: http://www.rgs.mef.gov.it/VERSIONE-I/Pubblicazioni/Pubblicazioni_Statistiche/La-spesa-dello-stato/, che viene aggiornato di anno in anno.
Con una breve memoria storica si possono così individuare i governi virtuosi e quelli meno, così da rendersi conto di chi sono "i meriti e le colpe" del perché oggi abbiamo un debito al 130% circa del PIL.
Cottarelli, però, non si sofferma tanto sul come siamo arrivati a questo punto, quanto su come possiamo uscirne, facendo valere la sua esperienza di lavoro al Fondo Monetario Internazionale.
Egli esamina in maniera dettagliata sei soluzioni proposte da varie parti, italiane e internazionali, evidenziando le ricadute negative e ritenendole inadeguate all'Italia.
1) Uscire dall'euro. Questo per tornare ad essere padroni della propria moneta e poter gestire in maniera autonoma l'emissione e la quantità di moneta, in modo da poterla svalutare e ridurre il debito. La disfunzione è proprio il livello d'inflazione che erode la capacità di spesa del paese
2) Non pagare il debito. Sarebbe una tassa sui detentori dei Buoni del Tesoro, per 2/3 italiani, dunque una diminuzione del reddito (derivato dagli interessi), una manovra di forte austerità. Essa è stata fatta quasi sempre solo da paesi emergenti e non in paesi avanzati economicamente. Inoltre produce sfiducia anche per un futuro lungo e quindi un tasso d'interesse alto sui futuri Buoni del Tesoro per molti anni
3) Mutualizzare il debito. Soluzione non molto diversa dalla precedente, soprattutto nelle sue conseguenze a lungo termine.
4) Vendere il patrimonio dello Stato. Facendo dei calcoli, Cottarelli mostra che più di tanto non si potrebbe ricavare da questa strada, in quanto la liquidità del patrimonio è scarsa e anche aumentarne la redditività non si è dimostrato facile nel passato. Strada che tuttavia, in qualche modo, andrebbe percorsa.
5) Austerità. Ridurre le spese dello Stato o aumentare le tasse per produrre un avanzo primario robusto. Qui il problema maggiore sono le ricadute sulla capacità di spesa delle imprese e dei cittadini, come è accaduto in Grecia e in parte anche in Italia.
6) Una maggiore crescita economica. Qui si parla delle riforme strutturali del mercato del lavoro, della Pubblica amministrazione, della giustizia, della concorrenza. Tuttavia l'impatto di queste riforme non chiaramente quantificabile. Inoltre si sta andando verso una situazione di relativamente scarsa crescita economica mondiale, dovuta in parte anche alle maggiori disuguaglianza tra ricchi e poveri, come ha mostra Piketty nel suo Il capitale nel XXI secolo.
Sono inoltre interessanti alcuni capitoli sparsi su Debito pubblico e morale, La crisi greca, Le regole fiscali dell'Europa e della Costituzione italiana, che illumina con intelligente sapienza alcune questioni di fondo che rendono ancora più chiaro il quadro economico-finanziario in cui viviamo.
Che fare allora? Cottarelli propone come strada maestra la combinazione di una moderata austerità fiscale con riforme che innalzino il tasso di crescita del PIL.
E' una strada che richiede coerenza e impegno per molti anni, circa 20 anni, per raggiungere un livello del rapporto debito/PIL che ci metterebbe al riparo da eventuali, e non certo impossibili, shock finanziari internazionali.
Cottarelli è convinto che non si tratterebbe di interventi lacrime e sangue, ma sicuramente di scelte e comportamenti diversi fatti anche negli ultimi anni, che hanno fatto risalire il rapporto debito/PIL dal 100% del 2008-2009 al livello attuale.
E' una buona proposta, fatta da uno che ha anche visto da vicino come lo Stato spende i soldi per i servizi ai cittadini, sperando che non solo i politici, ma soprattutto anche i cittadini ne sappiano apprezzare i vantaggi attuali per loro e quelli futuri per i pochi figli che stiamo facendo nascere.
In questa disamina precisa e rassicurante fatta da Cottarelli non si fanno riferimenti significativi alla evasione fiscale, alla corruzione e alle varie mafie, aspetti non indifferenti nel paese più corrotto dell'Occidente avanzato economicamente. Forse che dal contrasto a questi fenomeni non ci può essere un ulteriore significativo vantaggio per uscire dalla situazione attuale?
Invito alla lettura
La storia del debito pubblico italiano dagli anni sessanta a oggi è complicata, ma cerco di riassumerla in modo semplice suddividendo questo mezzo secolo in cinque periodi.
Primo periodo (l'origine del problema): nella metà degli anni sessanta la spesa primaria comincia ad accelerare, soprattutto nel comparto sanità e pensioni: è una tendenza in atto nella maggior parte dei paesi avanzati, che riflette l'invecchiamento della popolazione e l'ampliamento del sistema di welfare [...]
Secondo periodo (l'accelerazione del debito): l'inflazione non piace a nessuno e all'inizio degli anni ottanta governo e Banca d'Italia decidono il cosiddetto "divorzio" [...]
Terzo periodo (la correzione): all'inizio degli anni novanta, dopo la crisi economica che colpisce il paese nel 1992, inizia la riduzione del deficit primario: si tagliano le spese e, soprattutto, si aumentano le tasse [...]
Quarto periodo (l'occasione perduta): a causa dell'entrata dell'Italia nell'area dell'euro a fine anni novanta, i tassi di interesse sul debito pubblico cominciano a calare [...] il surplus primario comincia a calare [...]
Quinto periodo (la crisi): la crisi mondiale del 2008-2009 colpisce l'Italia causando la caduta del Pil e delle entrate tributarie e un amento del deficit. L'alto livello di debito ci impedisce di sostenere l'economia , attraverso aumenti di spesa o tagli delle tasse, tanto fatto da altri paesi (come gli Stati Uniti e il Regno Unito) (pp. 23-25)
Abbiamo considerato diverse possibili scorciatoie alla riduzione del debito.
Ripudiare il debito pubblico sarebbe molto costoso, soprattutto perché due terzi del debito sono detenuti da italiani. Ripudiare il debito vorrebbe dire tassare chi detiene la propria ricchezza in titoli di stato. Avrebbe quindi effetti recessivi. Inoltre ne soffrirebbe la reputazione dello stato italiano come emittente. L'Italia non ha mai ripudiato il proprio debito nei suoi centocinquantacinque anni di storia unitaria.
Anche uscire dall'euro non servirebbe a molto: la presenza di una banca centrale che possa stampare moneta per ripagare il debito potrebbe ridurre il rischio di una crisi sul mercato dei titoli di stato, ma non eviterebbe la necessità di correggere i conti pubblici, a ameno di essere disposti a un'inflazione elevatissima (e anche l'inflazione è una tassa). Quindi, a meno di credere che l'Italia non possa crescere finché resta nell'area euro ( e non credo sia questo il caso), uscire dalla moneta unica non aiuta a risolvere il problema del debito pubblico.
Mettere in comune il debito pubblico con i nostri partner europei (anche attraverso forme di garanzie congiunte volte ad abbassare il costo del debito italiano e ridurre il rischio di una crisi) sarebbe bello, ma richiede un grado di altruismo che non ci possiamo aspettare. Non illudiamoci.
Vendere o valorizzare le proprietà delle pubbliche amministrazioni può essere utile e può aiutare a ridurre il peso del debito pubblico, ma non è sufficiente, di per sé, a portare il debito a un livello più appropriato. (pp. 161-162)
Quel che è richiesto è di mantenere la spesa primaria costante in termini reali tra il 2016 e il 2019 (dopodiché potrebbe riprendere a crescere in linea con il PIL). Quindi non sarebbe necessario tagliare i servizi forniti ai cittadini. Basterebbe non spendere le maggiori entrate che derivano dal maggiore crescita prevista per i prossimi anni. Questo dovrebbe consentire di pareggiare il bilancio delle pubbliche amministrazioni entro il 2019. Si tratterebbe poi di mantenerlo in pareggio, ma solo al netto degli effetti del ciclo economico: recessioni porterebbero il bilancio in deficit, ma dovrebbero essere compensate dai surplus nelle fasi alte del ciclo economico. Se così si facesse, il debito pubblico si ridurrebbe a un passo regolare, scendendo sotto il 90% del PIL nel 2029, pienamente in linea con quanto richiesto dalla regola europea di discesa del debito. Questa politica non richiede sforzi tali da penalizzare la crescita potenziale dell'economia. E rispetto ad altri paesi che pure stanno cercando di ridurre il proprio debito pubblico saremmo avvantaggiati dalle riforme delle pensioni già introdotte negli ultimi due decenni, sempre che non le smontiamo. Certo il debito resterebbe elevato per parecchi anni. Una discesa più rapida potrebbe essere ottenuta con dismissioni del patrimonio pubblico. In ogni caso, se il debito fosse in chiara discesa, i rischi e i costi connessi a ogni livello del debito sarebbero molto attenuati. (pp. 163-164)
Insomma, per farcela dobbiamo comportarci in modo diverso dal passato [...] Certo ci vorranno tempo e pazienza, ma occorre crederci se vogliamo evitare di restare per sempre schiavi del debito e dei mercati finanziari. (p. 165)