Fratelli tutti: il cuore di papa Francesco
Un punto di vista originale sull'enciclica "Fratelli tutti".
Molte autorevoli persone hanno commentato e commenteranno l’enciclica Fratelli tutti (ad esempio Giacomo Costa, direttore di aggiornamenti sociali: Guida alla lettura).
Io vorrei sottolineare quei luoghi in cui papa Francesco fa emergere il suo desiderio più intimo, con esclamazioni, domande, riprese di sue parole precedenti che gli sono più care.
L’enciclica sviluppa uno dei temi più centrali alla cristianità e non a caso il papa si richiama alla vita e all’insegnamento di san Francesco d’Assisi, sulla cui tomba ha voluto firmare e promulgare questo testo che è una specie di testamento spirituale.
Rispetto all’insegnamento sociale della chiesa, cui si richiama, il papa non propone novità particolari, se non la fine della possibilità della guerra giusta («Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra!», n. 258) e la condanna della pena di morte («Oggi affermiamo con chiarezza che «la pena di morte è inammissibile» e la Chiesa si impegna con determinazione a proporre che sia abolita in tutto il mondo» n. 263), segnando un passo di non ritorno rispetto a dibattiti secolari.
Ma vengo ora a ciò che mi sembra stia più a cuore a papa Francesco che non si ritrae dai moti più intimi del suo animo, ma li condivide, superando la dimensione razionale del ragionamento, ma coinvolgendo i suoi e i nostri affetti, più cari. Affetti altrettanto necessari quanto la razionalità del pensiero (Sequeri, P., La fede e la giustizia degli affetti. Teologia fondamentale della forma cristiana, Cantagalli, Siena 2019; Deontologia del fondamento, Giappicchelli, Torinno 2020).
Leggiamo insieme in questa ottica un po’ nuova, questo testo che sembra quasi un testamento spirituale, sia per la ripresa dei temi a lui più cari, sia come profondità della riflessione. Una maturità spirituale difficilmente superabile che ci invita a un discernimento del nostro agire per sintonizzarlo sull’essenziale: «l’adorazione di Dio e l’amore del prossimo» (n. 282)
Al n. 55 il papa dice: «Invito alla speranza, che «ci parla di una realtà che è radicata nel profondo dell’essere umano, indipendentemente dalle circostanze concrete e dai condizionamenti storici in cui vive. Ci parla di una sete, di un’aspirazione, di un anelito di pienezza, di vita realizzata, di un misurarsi con ciò che è grande, con ciò che riempie il cuore ed eleva lo spirito verso cose grandi, come la verità, la bontà e la bellezza, la giustizia e l’amore. […] La speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa». Camminiamo nella speranza». E’ una citazione di un discorso ai giovani a Cuba. Il papa non è pessimista sul futuro dell’umanità, vuole che coltiviamo la speranza di un mondo migliore, di un mondo più giusto, di un mondo più fraterno. Il suo sguardo di uomo che ha vissuto tante vicende storiche, si è conservato pieno di speranza.
Francesco non ha difficoltà ha porre domande dure. Dopo aver illustrato la parabola del buon samaritano come figura del tempo presente si rivolge al lettore con questo domanda: «Con chi ti identifichi? Questa domanda è dura, diretta e decisiva. A quale di loro assomigli? Dobbiamo riconoscere la tentazione che ci circonda di disinteressarci degli altri, specialmente dei più deboli. Diciamolo, siamo cresciuti in tanti aspetti ma siamo analfabeti nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e deboli delle nostre società sviluppate. Ci siamo abituati a girare lo sguardo, a passare accanto, a ignorare le situazioni finché queste non ci toccano direttamente […] Meglio non cadere in questa miseria» (nn. 64-66).
Poco più avanti il papa, quasi menzionando un proverbio: «Chi vuole trova un mezzo e chi non vuole trova una scusa» dice che: «È possibile cominciare dal basso e caso per caso, lottare per ciò che è più concreto e locale, fino all’ultimo angolo della patria e del mondo, con la stessa cura che il viandante di Samaria ebbe per ogni piaga dell’uomo ferito. Cerchiamo gli altri e facciamoci carico della realtà che ci spetta, senza temere il dolore o l’impotenza, perché lì c’è tutto il bene che Dio ha seminato nel cuore dell’essere umano. Le difficoltà che sembrano enormi sono l’opportunità per crescere, e non la scusa per la tristezza inerte che favorisce la sottomissione. Però non facciamolo da soli, individualmente» (n. 78). Tutti possiamo fare qualcosa lì dove siamo.
Papa Francesco ci confida la sua tristezza (n. 86), aprendo così un varco sulla sua intimità: «A volte mi rattrista il fatto che, pur dotata di tali motivazioni, la Chiesa ha avuto bisogno di tanto tempo per condannare con forza la schiavitù e diverse forme di violenza. Oggi, con lo sviluppo della spiritualità e della teologia, non abbiamo scuse. Tuttavia, ci sono ancora coloro che ritengono di sentirsi incoraggiati o almeno autorizzati dalla loro fede a sostenere varie forme di nazionalismo chiuso e violento, atteggiamenti xenofobi, disprezzo e persino maltrattamenti verso coloro che sono diversi. La fede, con l’umanesimo che ispira, deve mantenere vivo un senso critico davanti a queste tendenze e aiutare a reagire rapidamente quando cominciano a insinuarsi. Perciò è importante che la catechesi e la predicazione includano in modo più diretto e chiaro il senso sociale dell’esistenza, la dimensione fraterna della spiritualità, la convinzione sull’inalienabile dignità di ogni persona e le motivazioni per amare e accogliere tutti».
Nel capitolo dedicato alla carità parla dell’attenzione affettiva (n. 93), come di uno che ne fa esperienza quotidiana: «Cercando di precisare in che cosa consista l’esperienza di amare, che Dio rende possibile con la sua grazia, San Tommaso d’Aquino la spiegava come un movimento che pone l’attenzione sull’altro «considerandolo come un’unica cosa con sé stesso». L’attenzione affettiva che si presta all’altro provoca un orientamento a ricercare gratuitamente il suo bene».
Il dolore fa parte dell’intimità di Francesco, dolore che forse nasce dal rilevare come alle parole non seguano i fatti, e non ha paura a parlarcene: «In questa linea, torno a rilevare con dolore che «già troppo a lungo siamo stati nel degrado morale, prendendoci gioco dell’etica, della bontà, della fede, dell’onestà, ed è arrivato il momento di riconoscere che questa allegra superficialità ci è servita a poco. Tale distruzione di ogni fondamento della vita sociale finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri interessi». Volgiamoci a promuovere il bene, per noi stessi e per tutta l’umanità, e così cammineremo insieme verso una crescita genuina e integrale. Ogni società ha bisogno di assicurare la trasmissione dei valori, perché se questo non succede si trasmettono l’egoismo, la violenza, la corruzione nelle sue varie forme, l’indifferenza e, in definitiva, una vita chiusa ad ogni trascendenza e trincerata negli interessi individuali» (n. 113).
Il papa poi ci offre una chicca di sapienza parlando della solidità e mette in una nota (nota 88: «La solidità si trova nella radice etimologica della parola solidarietà. La solidarietà, nel significato etico-politico che essa ha assunto negli ultimi due secoli, dà luogo a una costruzione sociale sicura e salda») la definizione che gli sta a cuore: «In questi momenti, nei quali tutto sembra dissolversi e perdere consistenza, ci fa bene appellarci alla solidità [88] che deriva dal saperci responsabili della fragilità degli altri cercando un destino comune. La solidarietà si esprime concretamente nel servizio, che può assumere forme molto diverse nel modo di farsi carico degli altri» (n. 115)
Parlando delle relazioni internazionali, papa Francesco è consapevole che: «Senza dubbio, si tratta di un’altra logica. Se non ci si sforza di entrare in questa logica, le mie parole suoneranno come fantasie. Ma se si accetta il grande principio dei diritti che promanano dal solo fatto di possedere l’inalienabile dignità umana, è possibile accettare la sfida di sognare e pensare ad un’altra umanità» (n. 127). Egli non è un ingenuo sognatore, ma un realistico uomo, sostenuto dalla sua fede in Dio amore, che vuole che siamo tutti fratelli.
Francesco è convinto che ciò che conta veramente è la conversione dei cuori umani. Lo ha detto più volte nei suoi scritti precedenti e anche qui lo ribadisce con forza, parlando di una organizzazione mondiale più efficiente per aiutare a risolvere i problemi impellenti dei più abbandonati: «Tutto ciò potrebbe avere ben poca consistenza, se perdiamo la capacità di riconoscere il bisogno di un cambiamento nei cuori umani, nelle abitudini e negli stili di vita […] il pericolo maggiore non sta nelle cose, nelle realtà materiali, nelle organizzazioni, ma nel modo in cui le persone le utilizzano. La questione è la fragilità umana, la tendenza umana costante all’egoismo, che fa parte di ciò che la tradizione cristiana chiama “concupiscenza”: l’inclinazione dell’essere umano a chiudersi nell’immanenza del proprio io, del proprio gruppo, dei propri interessi meschini. Questa concupiscenza non è un difetto della nostra epoca. Esiste da che l’uomo è uomo e semplicemente si trasforma, acquisisce diverse modalità nel corso dei secoli, utilizzando gli strumenti che il momento storico mette a sua disposizione. Però è possibile dominarla con l’aiuto di Dio.» (n. 166).
Parlando poi dei movimenti popolari, che gli stanno particolarmente a cuore li definisce con affetto poeti sociali: «In questo senso sono “poeti sociali”, che a modo loro lavorano, propongono, promuovono e liberano. Con essi sarà possibile uno sviluppo umano integrale, che richiede di superare «quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i
poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli». Benché diano fastidio, benché alcuni “pensatori” non sappiano come classificarli, bisogna avere il coraggio di riconoscere che senza di loro «la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino» (n. 169).
Papa Francesco ringrazia direttamente Dio, parlando delle società civile organizzata: «Grazie a Dio tante aggregazioni e organizzazioni della società civile aiutano a compensare le debolezze della Comunità internazionale, la sua mancanza di coordinamento in situazioni complesse, la sua carenza di attenzione rispetto a diritti umani fondamentali e a situazioni molto critiche di alcuni gruppi» (n. 175).
Poco più avanti ecco un’altra espressione particolarmente personale, quasi una preghiera: Dio voglia. «La mancanza di dialogo comporta che nessuno, nei singoli settori, si preoccupa del bene comune, bensì di ottenere i vantaggi che il potere procura, o, nel migliore dei casi, di imporre il proprio modo di pensare. Così i colloqui si ridurranno a mere trattative affinché ciascuno possa accaparrarsi tutto il potere e i maggiori vantaggi possibili, senza una ricerca congiunta che generi bene comune. Gli eroi del futuro saranno coloro che sapranno spezzare questa logica malsana e decideranno di sostenere con rispetto una parola carica di verità, al di là degli interessi personali. Dio voglia che questi eroi stiano silenziosamente venendo alla luce nel cuore della nostra società» (n. 202).
Il papa è consapevole che la carità politica non è un’utopia ma una realtà da perseguire, anche se è difficile: «La carità politica si esprime anche nell’apertura a tutti. Specialmente chi ha la responsabilità di governare, è chiamato a rinunce che rendano possibile l’incontro, e cerca la convergenza almeno su alcuni temi. Sa ascoltare il punto di vista dell’altro consentendo che tutti abbiano un loro spazio. Con rinunce e pazienza un governante può favorire la creazione di quel bel poliedro dove tutti trovano un posto. In questo ambito non funzionano le trattative di tipo economico. È qualcosa di più, è un interscambio di offerte in favore del bene comune. Sembra un’utopia ingenua, ma non possiamo rinunciare a questo altissimo obiettivo» (n. 190).
Il dialogo è un altro punto su cui Francesco insiste, sapendo quanto sia importante a tutti i livelli dal personale ai rapporti internazionali: «Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto, tutto questo si riassume nel verbo “dialogare”. Per incontrarci e aiutarci a vicenda abbiamo bisogno di dialogare. Non c’è bisogno di dire a che serve il dialogo. Mi basta pensare che cosa sarebbe il mondo senza il dialogo paziente di tante persone generose che hanno tenuto unite famiglie e comunità. Il dialogo perseverante e coraggioso non fa notizia come gli scontri e i conflitti, eppure aiuta discretamente il mondo a vivere meglio, molto più di quanto possiamo rendercene conto. (n. 198).
E poco più avanti esorta con una esclamazione che ricorda san Paolo (Ef 6,11-17): «Armiamo i nostri figli con le armi del dialogo! Insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro!» (n. 217)
E ancora eccolo che esclama: «Se potessimo riuscire a vedere l’avversario politico o il vicino di casa con gli stessi occhi con cui vediamo i bambini, le mogli, i mariti, i padri e le madri. Che bello sarebbe! Amiamo la nostra società, o rimane qualcosa di lontano, qualcosa di anonimo, che non ci coinvolge, non ci tocca, non ci impegna?» (n. 230)
Parlando del rapporto tra religioni e violenza, il papa si sente coinvolto nel processo di conversione all’essenziale del rapporto con dio e i fratelli per tutti gli uomini di fede: «Anche «i credenti hanno bisogno di trovare spazi per dialogare e agire insieme per il bene comune e la promozione dei più poveri. Non si tratta di renderci tutti più light o di nascondere le convinzioni proprie, alle quali siamo più legati, per poterci incontrare con altri che pensano diversamente. […] Perché tanto più profonda, solida e ricca è un’identità, tanto più potrà arricchire gli altri con il suo peculiare contributo». Come credenti ci vediamo provocati a tornare alle nostre fonti per concentrarci sull’essenziale: l’adorazione di Dio e l’amore del prossimo, in modo tale che alcuni aspetti della nostra dottrina, fuori dal loro contesto, non finiscano per alimentare forme di disprezzo, di odio, di xenofobia, di negazione dell’altro. La verità è che la violenza non trova base alcuna nelle convinzioni religiose fondamentali, bensì nelle loro deformazioni. (n. 282)
Sotto forma di una preghiera personale, con un: Amen, che conclude l’enciclica, papa Francesco riprende la testimonianza del beato Charles de Foucauld: «Egli andò orientando il suo ideale di una dedizione totale a Dio verso un’identificazione con gli ultimi, abbandonati nel profondo del deserto africano. In quel contesto esprimeva la sua aspirazione a sentire qualunque essere umano come un fratello, e chiedeva a un amico: «Pregate Iddio affinché io sia davvero il fratello di tutte le anime di questo paese». Voleva essere, in definitiva, «il fratello universale». Ma solo identificandosi con gli ultimi arrivò ad essere fratello di tutti. Che Dio ispiri questo ideale in ognuno di noi. Amen» (n. 287).
Stella Morra, Dio non si stanca. La misericordia come forma ecclesiale, EDB, Bologna 2015, euro 16,00, pp. 144.
La misericordia ci fa vivere
«Dio perdona i nostri peccati perché ci guarda rendendosi bisognoso di noi e chiamando in vita tutto quel di più di noi che noi stessi non sappiamo nemmeno di possedere, e che non ci potremo dare da soli. Organizzare la propria vita, impostarla, sceglierla su questa logica sulla certezza che lo sguardo amoroso di Dio chiamerà in vita tutti i pezzi di me che io non so di avere, è forse una definizione possibile di “essere cristiani” secondo la forma della misericordia». (p. 117)
Stella Morra è teologa alla Pontificia Università Gregoriana e al Pontificia Ateneo Sant’alselmo, vicepresidente del Coordinamento delle Teologhe italiane, sociologa.
La multidisciplinarietà che attraversa il suo percorso di riflessione, la fede che la anima e l’esperienza ecclesiale, la aiutano ad avere uno sguardo più profondo sulle mutazioni epocali che la chiesa sta attraversando.
Il libro è denso per la materia che tratta, cui non siamo molto abituati, ma chiaro e con l’intenzione di accompagnare il lettore in un cammino di conversione di pensieri che ci impediscono di vivere con serenità il trapasso ecclesiale iniziato con il Concilio Vaticano II e che stiamo vivendo ancora oggi.
L’invito a leggerlo che faccio nasce proprio dal sentimento che piano piano si è fatto avanti in me leggendo quello che considero uno dei libri più interessanti e stimolanti che ho letto negli ultimi anni: un sentimento di liberazione, di allargamento del cuore e di richiesta di impegno per il tempo dell’oggi.
Il punto focale è la trasformazione della forma della chiesa e quindi dell’esperienza di fede e della sua possibilità di essere vissuta e detta nel tempo-spazio che abitiamo.
Tutto il testo è punteggiato da esempi di come abbiamo detto e vissuto fino ad oggi la forma ecclesiale e di come potremmo iniziare a sperimentarla e quindi a dirla da adesso in poi.
La tesi di fondo è che stiamo passando dalla forma gregoriana-tridentina-tomista alla forma misericordiosa.
Stella Morra non vuole definire cosa è la misericordia, ma proporre un programma di lavoro per i prossimi decenni: «Per prima cosa bisogna ricostruire la rete tra forma, materia e ministro della misericordia e farli crescere insieme. In secondo luogo occorre chiedersi quale sia il processo che la misericordia instaura» (p. 135). Appena prima precisa che «la materia su cui si esercita la misericordia è decisamente la vita» e che «la tradizione insegna che si è ministri perché si prende la parola» (p. 134).
Rimane la questione della forma «secondo la quale noi facciamo agli altri ciò che Dio ha fatto a noi […] Con una risposta estremamente sintetica potremmo rispondere che si è messo dalla nostra parte, ha assunto l’umanità e lo ha fatto al massimo grado della croce» (p. 135), cioè ha vissuto il mistero pasquale di passione, morte e resurrezione, come segno della misericordia di Dio: «Dio non ci umilia aiutandoci, ma si umilia salvandoci» (p. 136).
Stella Morra propone la misericordia come categoria generatrice della nuova forma che sta prendendo la chiesa.
Lo fa con una disanima precisa e sintetica delle varie difficoltà delle forme che la chiesa ha assunto e vissuto nella sua storia fino ad ora (cap. 2).
Affronta in particolare la forma tomista che ci accompagnato per molti secoli e ne mostra le ricchezze ma anche i limiti (cap. 3), e qui sta la conversione più vera del nostro dire e vivere la fede, conscio e inconscio. Sono molte le parole e i discorsi che ci facciamo come comunità ecclesiale, ma che tradiscono, spesso, un non discernimento e una non riflessività critica delle categorie che usiamo e soprattutto degli schemi mentali che usiamo quotidianamente per cercare di dialogare tra noi. Questa non riflessività critica implica cortocircuiti non solo a livello del pensiero, ma soprattutto a livello di esistenze vissute.
Il tempo di passaggio che stiamo attraversando richiede, attingendo alla modalità con cui altre crisi dei primi secoli sono state affrontate (Nicea e Calcedonia, per esempio), di poter trovare «una forma di vita cristiana “senza confusione e senza separazione”, una vita non dominata dalla genericità o dall’esclusione, ma visibile e abitabile» (p. 48). Qui l’autrice si impegna a una disamina di tre nodi fondamentali: la cattolicità, l’inclusività e la processualità, mostrando risposte facili ma inutili e proponendo alcuni criteri di fedeltà evangelica che il Concilio Vaticano II ha riproposto in forma narrativa e non giuridica, a partire dalla sottomissione alla parola di Dio dataci come grazia (cap. 4): «Per questo motivo i cristiani non presumono (non dovrebbero presumere) di poter spiegare teoricamente tutto e di avere una buona risposta per ogni questione, ma si allenano (si dovrebbero allenare) a riconoscere l’evangelo dove accade, diventando messaggeri di buone notizie» (p. 54).
Nel cap. 5 Stella Morra si preoccupa di mostrare le differenze tra la forma che sta passando e quella che si sta affacciando rispetto a temi caldi: rapporto tra ortodossia e ortoprassi, rapporto tra vita e natura, principio dell’autorità, sottovalutazione della pratica, il tentativo della nuova evangelizzazione, troppa appartenenza e poca identità, la crisi della spiritualità, proponendo di tornare a considerare la vita secondo lo Spirito come un criterio e non come un contenuto.
Occorre una nuova epistemologia (cap. 6) che la teologa qualifica come “epistemologia della complessità. Capitolo denso che ripropone vari snodi concettuali e che merita di essere letto con attenzione, quasi meditato, per poterne cogliere fino in fondo il potere di liberare energie fresche per il nostro vivere nel mondo.
L’ultimo capitolo si misura con l’esperienza della misericordia di Dio mostrandone tutti i vantaggi che si acquistano se la consideriamo come categoria generatrice. Dapprima mostra sette dimensioni della misericordia nel suo valore performativo, che realizza ciò che dice, poi riprende i nn. 217-237 della Evangelii Gaudium di papa Francesco, mettendo così alla prova della pastoralità del vescovo di Roma le dimensioni precedentemente esplorate.
Il dolce in fondo, a conclusione di un pasto prelibato e succulento, che presenta vari sapori, antichi e nuovi, in una miscela che rende conto di una globalizzazione ecclesiale che avanza e di cui non dobbiamo avere paura, ma abituarci ad assaporare come dono dello Spirito che avanza nella storia per realizzare la parola di Dio.
Invito alla lettura
Per cogliere il segno di Dio nella realtà occorrono vigilanza e silenzio. […] La misura deve essere quella del più povero. (pp. 126.128)
Dovessi elaborare una graduatoria dei pericoli per la fede, penso che la progressiva individualizzazione avrebbe il primo posto: sta rischiando di uccidere l'esperienza cattolica del cristianesimo, è uno dei meccanismi che sta veramente interrompendo la tradizione, che ci sta impedendo di mostrare il cristianesimo come evento di benedizione. La sua radice più profonda è nel sovraccarico di coscienza del singolo credente, che non solo non è una salvezza e una benedizione per i nostri contemporanei, ma sembra essere l’ennesimo impegno di un’agenda già molto piena. (p. 28)
Una buona volontà senza una competenza nel momento di crisi può produrre un grande caos. Più o meno, è quello che è successo dal Vaticano II a oggi. (p. 29)
Papa Francesco, semplicemente, si muove come uno che ha piena consapevolezza che quell’idea di sacralità del primato petrino non esiste più. Non è lui che ha fatto finire quell’impianto, è semplicemente uno che si muove smettendo di far finta che esista ancora. (p. 33)
La difficoltà più grande per un teologo – che di per sé lavora con i concetti, le idee, le parole – risiede nel fatto che il cristianesimo non si basa su un’idea, ma sull’esperienza di un fatto. Si basa cioè sull’esperienza di Dio che diventa carne in Gesù Cristo (cfr. Gv 1). (p. 37)
La struttura di Tommaso, infatti, funziona benissimo per affrontare la vita nella sua realtà, ma ha un limite evidente quando si tratta di leggere un altro livello dell’esperienza di fede, che è quello simbolico-rituale. (p. 41)
Un esempio chiaro è l’uso che si fa tuttora della categoria di natura. Per Tommaso è di tipo inclusivo: la usa per dire ciò che tutti possono riconoscere e su cui tutti possono concordare, compresi musulmani e giudei (il pluralismo che aveva intorno). In questo contesto, natura è legato l tema della ratio, della ragione riconoscibile da tutti. Tommaso la usa per «de-confessionalizzare». Noi siamo invece all’estremo opposto della parabola: natura è diventato il tema identitario, esclusivo, radicale, per distinguere chi è cattolico e chi no. (p. 43)
Non si può mettere mano alla forma senza coinvolgere anche la sostanza. Il problema tuttavia è un altro: se si accetta il dato della processualità, non tutti i cambiamenti sono tradimenti. Sono cambiamenti anche di sostanza, ma non dei tradimenti. (p. 45)
Senza adeguate contromisure, fissare – non tanto o non solo nella teoria accademica, quanto nelle pratiche concrete – l’ortoprassi come criterio della fedeltà evangelica significa svuotare le fila della Chiesa: dal momento che siamo tutti peccatori, chi può fare affidamento sulla sua condotta per giustificare la fedeltà al Vangelo? […] L’esito peggiore è agire a partire dalla presunzione – anche solo implicita – che la salvezza sia data dall’assenza di peccato e non dalla carità. (p. 56)
Se il vangelo deve essere annunciato, non può essere autoevidente. (p. 59)
La conformazione a Cristo richiede la soggettività del singolo: è quindi un fatto personale, ma non è mai un fatto individuale. (p. 63)
L’appartenenza fa infatti della regola il fine. E’ orizzontale, sottolinea la conformità alla regola che ci si è data, mentre l’identità sottolinea la conformità all’obiettivo per cui la regola esiste. Nella logica dell’identità la regola è uno strumento, per quanto prezioso lo spossa considerare. (p. 65)
Vorrei essere molto chiara: sono convinta che in un tempo di transizione come il nostro sia necessaria più teoria, perché ci sono molte variabili da tenere in considerazione e meno parole di quante ne avremmo bisogno. Deve essere tuttavia una teoria molto nutrita dalla pratica, quindi molto capace di guardare la realtà e di riconoscerla operando un esercizio critico sull’esperienza. (p. 67)
L’attenzione esasperata ai principi ha comportato nella teologia la perdita di qualcosa di più grande. L’esempio più evidente di questo processo di riduzione è la sostituzione di fatto – nella vita credente – del racconto biblico con i contenuti del catechismo. Per quasi cinque secoli «imparare la dottrina» è stato molto più importante che «ascoltare il vangelo». (p. 73)
La forma del racconto è la forma congeniale all’autorivelarsi di Dio nella storia. S sostituisco al racconto un principio – sia esso quello di autorità o di dottrina – inevitabilmente opero una riduzione. (p. 74)
Detto in altre parole, abbiamo bisognosi una forma della fede che mostri in se stessa lo spossessamento. (p. 78)
L’esagerazione della causalità ci ha fatto perdere di vista la logica dell’incarnazione, che però – le vie del sensus fidei sono infinite – si ritrova ancora in molti ragionamenti dell’esperienza credente. Oggi nessuno crede perché è certo che Dio sia la causa del mondo. L nostra esperienza di fede muove da un’altra intuizione originaria: crediamo perché abbiamo sperimentato misericordia. […] La radice della fede non ha nulla a che fare con la logica della causalità, ma al contrario è spesso una misericordia senza causa, ed esattamente in questo sta la sua esplosività, lo stupore. (pp. 91-92)
Uno dei nostri problemi era aver ridotto l’esperienza cristiana a un oggetto staccandola dal soggetto. L’epistemologia della complessità conferma che questa separazione non corrisponde al reale e ci offre elementi per ripensare la fede. (p. 92)
Dobbiamo smettere di pensare che il nostro compito come teologi sia solo quello di spiegare un oggetto, già dato e descritto una volta per sempre, per tornare ad ascoltare quello che succede e dare parola al sensus fidei facendo dialogare il rigore delle conoscenze e del principio critico della ragione con le azioni e le emozioni e i pensieri di tutto il popolo di Dio. (p. 99)
Detto in altro modo, diventare un popolo è molto più che essere cittadini titolari di diritti e doveri. (p. 110)
Per passare da cittadini a popolo non è sufficiente condividere uno status, ma occorre un consenso intorno a una cultura, cioè riconoscersi in una sovrabbonda simbolica. Se il punto di consenso fosse un’uniformità costruita intorno a un concetto esatto, l’esito più probabile sarebbe il totalitarismo. Bisogna diventare un popolo con un consenso simbolico, quindi non dimenticare che il tempo è sempre superiore allo spazio. (pp. 113-114)
Se invece il tempo è superiore allo spazio,la vera questione è privilegiare l a potenza di promessa di ogni gesto della vita […] Radicandolo invece sulla categoria della promessa, il peccato potrebbe essere spiegato come la mancanza di riconoscimento della promessa che la vita è, o meglio, che ogni gesto di vita è. Si potrebbe dire che il peccato è rimanere al di sotto della soglia della propria felicità possibile e promessa. (p. 116)
Dio perdona i nostri peccati perché ci guarda rendendosi bisognoso di noi e chiamando in vita tutto quel di più di noi che noi stessi non sappiamo nemmeno di possedere, e che non ci potremo dare da soli. Organizzare la propria vita, impostarla, sceglierla su questa logica sulla certezza che lo sguardo amoroso di Dio chiamerà in vita tutti i pezzi di me che io non so di avere, è forse una definizione possibile di «essere cristiani» secondo la forma della misericordia. (p. 117)
Come accadde ai discepoli, si sta al fianco di Gesù capendo e anche non capendo. La questione è il popolo fedele, non il popolo intelligente. (p. 118)
La sfida enorme è di tramutare questo principio in una pratica in grado di comprendere la parzialità senza subordinarla gerarchicamente alla pienezza che non c’è ancora. (p. 119)
Concentrandosi ognuno sul proprio spazio, risultato, scopo e non sulla promessa si va al conflitto. (p. 121)
L’unità è il frutto di una solidarietà, non si dà in riferimento a un criterio oggettivo, ma nella costruzione di una storia, nella «risoluzione su un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto» (p. 122)
Laicità della chiesa: attualità e problemi
Severino Dianich, Chiesa e laicità dello Stato. La questione teologica. Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2011, euro 10,00
Indice: clicca qui
Invito alla lettura: parte 1 e parte 2
L'autore è professore emerito di Ecclesiologia e Cristologia della Facoltà teologica dell'Italia centrale di Firenze.
Questo piccolo libretto è un pacato libello su una questione centrale del post-concilio Vaticano II: quale rapporto tra la chiesa e lo stato, qualunque chiesa e qualunque stato. In particolare l'autore si sofferma sulla chiesa cattolica e gli stati democratici occidentali.
Il sottotitolo "la questione teologica" inquadra e sostanzia la riflessione, perché non è un semplice affrontare la questione di attualità in Italia che ha visto varie polemiche e pochi punti fermi da una parte e dall'altra del dibattito sul rapporto tra chiesa e stato.
L'autore va alla radice di che cosa è la chiesa e, di conseguenza, quale dovrebbe essere il suo rapporto con lo stato democratico nel mondo pluralista che stiamo vivendo.
Riprendendo sinteticamente i propri studi ecclesiologici e la storia bimillenaria della chiesa, Dianich offre a credenti e non credenti dei punti fermi che possono aiutare il dialogo, invece di incepparlo, perché il dialogo tra chiesa e stato è necessario a tutti e due i soggetti.
«L'oggetto di questa riflessione non è la natura dello Stato e il suo carattere di Stato laico, bensì la forma delal chiesa di fronte alla laicità dello Stato. La domanda che ci poniamo è: quale ecclesiologia per una Chiesa che abita in una stato laico?» (p. 16)
La costituzione del Concilio Vaticano II sulla chiesa, «Lumen gentium 2 (...la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano) ci ha insegnato che la Chiesa non è una rete di relazioni solo al suo interno, ma è un segno e uno strumento per il mondo ed è, quindi, strettamente relativa all'altro da sé. Non avrebbe senso, quindi, voler costruire un'ecclesilogia autoreferenziale. La relazione con l'altro non è un fattore conseguente, bensì un elemento strutturante, già a partire dalal concezione della Chiesa veluti sacramentum, pensata cioè come una realtà essenzialmente strumentale, destinata a manifestare e donare la grazia della comunione con Dio ad ogni uomo e ad operare per l'unità di tutto il genere umano» (p. 17)
L'autore è ben consapevole della problematica che si è venuta sviluppando con il venir meno della ricerca di autorità forti cui affidare la propria vita e la conseguente parificazione delle varie proposte culturali, filosofiche e religiose del mondo globalizzato e post-moderno.
«Ora, è importante tenere presente che tutti i complessi rapporti della Chiesa con la società sul piano culturale, sociale e politico, in realtà si intrecciano intorno a questo nucleo essenziale che è l'atto della comunicazione agli uomini della fede in Gesù» (p. 20)
Dopo aver illujstrato le forme dell'evangelizzazione nel corso dei secoli, Dianich afferma: «La dinamica essenziale e primaria della comunicazione della fede è quella propria di un atto comunicativo fra due persone e la condizione di fondo della sua praticabilità è la libertà degli interlocutori, sia nel dire, sia nell'ascoltare e sia, soprattutto nel tirarne le conseguenze. La fede o è il risultato di un ascolto gradito e di una scelta consapevole, personale e libera, o non è. Questa condizione di libertà ha bisogno di essere valorizzata non solo nella proposta della fede ai non credenti che non sono mai stati battezzati, ma anche nel rapporto della chiesa con i battezzati che non si professano più credenti. E' un'osservazione che non va trascurata, perché il costume cattolico tradizionale li considera come apostati sui quali, in forza del battesimo ricevuto, la Chhiesa conserva la sua autorità: permanendo un tale tipo di rapporto, nel quale l'interlocutore si sente giudicato e sottoposto ad un'autorità di cui non ricnosce più il fondamento, che è la fede, la proposta di credere in Cristo di fatto risulta impossibile. Solo un riconoscimento, privo di qualsiasi ambiguità, della libertà delle persone, in qualsiasi condizione spirituale si trovino, permette la comunicazione della fede» (pp. 37-38)
«Chi evangelizza, in quanto soggetto portatore del vangelo, è certo, nella consapevolezza dellasua fede, di portare un contributo assolutamente essenziale al bene dei fratelli, ma in quanto cittadino sa di essere un cittadino qualsiasi, uguale in dignità e diritti a tutti gli altri [...] Ora, la tradizione cattolica, pur non abbandonando la convinzione che la fede non può essere imposta, nel passato giocava le sue carte sull'idea che lo Stato le dovesse garantire non solo la libera espansione, ma anche un ordinamento civile omogeneo alla sua visione etica [...] Tramontato definitivamente questo sistema di relazioni fra la Chiesa e lo Stato, si ha l'impressione che la Chiesa non abia ancora trovato un nuovo equilibrio nel suo modo abituale di rapportarsi con la società civile» (pp.39-40)
Dianich passa poi ad analizzare le autocensure della chiesa rispetto al tema della missione:
«Se il cuore stesso della fede e della missione della Chiesa, cioè il vangelo e la sua proposta al mondo, ha una rilevanza pubblica e una sua singolare capacità di incidere sulla società, la stessa comunicazione della fede non può essere rinchiusa nell'area dei soli rapporti interpersonali.
Nonostante questa osservazione di fondo, gli stessi documenti del magistero a volte si rivelano incerti e timidi a questo proposito, scegliendo spesso di parlare al mondo non già avanzando i grandi temi del vangelo stesso, ma preferendo appellarsi alla pura ragione e alla forza imperativa della legge naturale, come se quella fosse l'unica base possibile per interloquire con la società secolarizzata e dialogare con coloro che non condividono la fede cristiana.
Accade in tal modo che vengano tracciati per la missione della Chiesa die percorsi separati.
Uno sarebbe quello della pura predicazione del vangelo, che chiama l'uomo alla comunione con Dio in Cristo, una predicazione da riprodurre continuamente all'interno della comunità cristiana e una proposta da fare ai non credenti perché vi possano entrare.
Un secondo percorso, diverso e parallelo, sarebbe quello da intraprendere per esercitare la responsabilità pubblica della Chiesa nei confronti della società civile» (pp. 46-47)
«Questa rinuncia pratica a fare del vangelo stesso il nucleo sostanziale del proprio dialogo con il mondo e del proprio protagonismo civile sta producendo l'esito paradossale di una strana forma di secolarizzazione della stessa missione della Chiesa [...] In Europa oggi, proprio perché si vive in uno spazio contrassegnato dalla libertà e dall'identico diritto di proposta dei cittadini, non si vede la ragione per cui l a Chhiesa dovrebbe autolimitarsi, collocando la sua proposta al mondo secolarizzato sul piano della sola ragione, invece di interpellarlo, anche per i suoi problemi che non sono di natura religiosa, con la forza della parola evangelica» (p. 48)
Dianich prosegue notando come il vangelo, la storia di Gesù, sia pieno di valori umani. L'autore porta l'esempio del perdono, che la Chhiesa non ha mai chiesto fosse introdotta negli ordinamenti civili e tuttavia è sempre stato ispiratore di gesti e idee che hanno influenzato gli ordinamenti giuridici.
Per Dianich il messaggio evangelico è segnato dalla contingenza storica che accompagna ogni epserienza umana. Tale contingenza richiede l'umiltà delal fede che si propone come significativa esperineza umana, più che come imposizione di una verità soprannaturale.
«Consapevole di non poter spogliare il messaggio del rivestimwento contingente di cui essa inevitabilmente lo ricopre con la sua vita, la Chiesa può e deve rivolgersi al mondo con le stesse parole con cui Paolo si rivolgeva alla comunità di Corinto: "Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore... " (2Cor 4,7s) Ne deriva una straordinaria possibilità della fede di porsi nella società non con l'imperatività del divino, ma con l'umiltà dell'umano e così interagire con tutti, anche in una società secolarizzata e laicamente governata, che non è disposta ad attribuire a nessuno dei suoi membri, singolo o aggregazione sociale, comunità scientifica o filosofica o religiosa che sia, un'autorità unica e indiscutibile» (p. 57)
Il capitolo 7 riguarda il rapporto tra Chiesa, democrazia e potere. Il tema è delicato, ma lo svolgimento è convincente: quando la chiesa si pone come soggetto che ricerca un potere, anche buono, per imporre la propria visione di fede alla società, rischia un conflitto con la libertà di coscienza di chi non accoglie la sua proposta civile, vanificando la possibilità che la comunicazione della fede possa raggiungere il cuore di chi pensa o crede diversamente dalla chiesa.
Il capitolo 8 è di fatto un commento al n. 42 di Gaudium et Spes: «la forza che la Chiesa riesce a immettere nella società umana contemporanea consiste in quella fede e carità effettivamente vissute, e non in una qualche sovranità esteriore esercitata con mezzi puramente umani».
Il capitolo 9 propone in 6 tratti una possible nuova forma della Chiesa, a imitazione della forma di Cristo, per i rapporti con la società civile.
1) «Il primo di questi tratti è daterminato dall'assoluta preminenza dell'impegno della comunicazione della fede su ogni altra componente della missione»
2) «Un secondo tratto riguarda le finalità e quindi la qualità della relazione della Chiesa con il mondo [...] Quell'opera che spesso abbiamo designato come il servizio della Chiesa al bene comune, nell'ambito sociale e politico, dal concilio è costantemente indicata come un servizio alla pace e all'unità»
3) «Un terzo tratto della forma della Chiesa, determinato dall'esigenza della proposta del vangelo a tutti, senza alcuna discriminazione, all'interno di una società secolarizzata e pluralista, è dato dal necessario atteggiamento di rinuncia, al di là di ogni ambiguità, a quell'egemonia morale sulla società civile, che ha caratterizzato, con tutte le conseguenze politiche che ne derivavano, una più che millenaria tradizione della Chiesa»
4) «Un quarto tratto della forma Ecclesiae che oggi si impone alla comunità eccleisale e alle sue istituzioni, e sul quale molti oggi insistono, è dato dalla necessità di rafforzare, nei rapporti con la società, con le altre Chiese e con le altre religioni, l'identità cristiana dei credenti e delle loro comunità. Questa, però, non è data dalla capacità di contrapporsi a tutte le altre visioni del mondo con cui la Chiesa si confronta nel mondo contemporaneo, ma piuttosto nella forma antimondana con cui la Chiesa si presenta sulla scena del mondo»
5) «Ne deriva che un altro tratto della forma della Chiesa è l'apostolica vivendi forma. Qui bisognerebbe riaprire il dossier sulla povertà nella Chiesa, che era stato elaborato durante la terza sessione del concilio da un gruppo di vescovi, rimasto noto come il gruppo che si riuniva presso il Collegio belga. Lo stimolo era partito dallo stesso papa, quando in Ecclesiam suam Paolo VI» invitava i vescovi a dire «come debbano pastori e fedeli alla povertà educare oggi il linguaggio e la condotta»
6) «L'ultimo tratto della forma della Chiesa, che le permette di svolgere la sua missione in una società secolarizzata e democraticamente ordinata in uno Stato laico, è proprio quella della sua fondamentale laicità» della chiesa, naturalmente!
Dianich conclude che «un buon equilibrio dei rapporti non è stato ancora raggiunto» e la coscienza ecclesiale, prima ancora di «denunciare la negatività della società civile», se si esaminerà, «vedrà emergere prima di ogni altra cosa il bisogno di prendere atto serenamente della situazione mutata».
Andrea Grillo, Genealogia della libertà. Un itinerario tra filosofia e teologia, Edizioni san Paolo, Cinisello Balsamo 2013, euro 14,00.
professore ordinario di teologia dei sacramenti e filosofia della religione presso il Pontificio Ateneo San'Anselmo di Roma. Insegna liturgia presso l'Istituto di liturgia pastorale dell'Abbazia si santa Giustina a Padova.
Indice: clicca qui
Un interessantissimo, acuto e soprattutto originale saggio, che affronta l'origine e il dispiegarsi della libertà in relazione all'autorità. Inoltre esemplifica questa riflessione in ordine alla tolleranza come non indifferenza alla diversità, piuttosto che indifferenza all'uguaglianza.
Ci sono poi tre esempi significativi sul cittadino, sull'ebreo, e sul matrimonio. In particolare propone una teologia del matrimonio non massimalista, di notevole interesse per le questioni che coinvolgono le convivenze, i PACS, il matrimonio ciivle e quello cristiano.
Tesi: LA PACE DIVIENE POSSIBILE SOLO QUANDO LA LIBERTA' SI RICONOSCE COME RICONOSCIUTA DA UN'AUCTORITAS CHE L'HA GENERATA
Qui potete trovare una breve antologia di testi significativi: clicca qui.
Romano Guardini, L'opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente, Morcelliana, Brescia 1997 (originale tedesco: 1925), euro 15,00
L'invito a leggere questo interessantissimo di filosofia che riguarda l'uomo concreto è nato da una lettura di un articolo di Salmann, benedettino e teologo, che citava Guardini e l'opposizione polare come chiave interpretativa complessiva della vita dell'uomo concreto.
Trovate nel file allegato in WORD (22 pagine non fitte) una scelta di brani significativi del libro, di cui ne ho evidenziati alcuni che riguardano l'opposizione polare, altri la vita, oltre ad alcune piccole inserzioni mie di spiegazione.
L'opposizione polare è l'indicazione di una sapienza di vita da acquisire come antidoto ai veleni dell'unilateralismo e del pensiero unico, che producono danni in ogni epoca.
Guardini è un moderno come pochi altri che conosco, pur avendo scritto il testo nel 1925 e avendolo considerato solo un abbozzo di pensiero, che non ha potuto trovare una adeguata miglioria fino alla sua morte, con grande rincrescimento dell'autore. Il quale ritiene che quanto qui abbozzato sia alla base delle sue riflessioni sempre stimolanti e significative ancora oggi, proprio per questa sapienza di vita che ha praticato con umiltà e sagacia.
La lettura è stimolante e la consiglio sia trasversalmente per i due temi: opposizione polare - vita, che secondo losvolgimento del testo, in cui ci sono riprese e ritorni sui punti fondamentali. E' per certi versi un pamphlet contro lo scientismo, l'intuizionismo, il romanticismo e la dialettica hegheliana, con tuttavia una consapevolezza, espressa fin dall'inizio, che dopo i greci e il medioevo, la modernità ha portato un vantaggio, la considerazione del soggetto, e uno svantaggio, la separazione del pensiero astratto dalla vita concreta, che può essere indagata solo con una «visione».
L'opposizione polare è il tentativo riuscito di uscire da questa empasse del pensiero concettuale, per trovare una possibile nuova visione dell'uomoche tenga conto della storia del pensiero, tenendo il meglio e mlasciando cadere ciò che non funziona.
Documento WORD (clicca qui)
Ho ricevuto questo libro (edito nell'ottobre 2011) in regalo da un'amica che ha un gran cuore e si prende cura professionalmente di alcuni piccoli di questo mondo. Di don Andrea GAllo ho sentito parlare come di un prete bravo, aperto, di sinistra, un po' ribelle e l'unica volta che l'ho sentito di persona è stato quando ha partecipato alla trasmissione di Fazio e Saviano nel 2010 "Vieni via con me" e, pur piacendomi quello che diceva, c'era qualcosa nel suo tono che non mi aveva convinto.
Leggendo questo libro (biografia e indice) mi sono dovuto ricredere. Don Andrea è un vero prete, nel senso migliore del termine: colui che fa ponte tra il mistero di Dio e la vita degli uomini, che cerca di aggiornare (il termine è voluto e rimanda a papa Giovannni XXIII e al suo discorso di apertura del Concilio Vaticano II) ai tempi che mutano l'evangelo di Cristo, la buona notizia che Dio ama gli uomini e la morte è vinta.
Il libro si compone di agili capitoletti che sembrano essere discorsi o brevi interventi. Hanno uno stile di dialogo con il lettore e lo invitano fortemente a rendersi conto delle contraddizioni della vita e prendere posizione di fronte ad esse, a partire dalla realtà di chi è escluso da una vita "normale", ha subito violenza, non è stato capace di trovare un posto a lui adeguato tra i fratelli e nella società.
Il titolo riecheggia il titolo del primo libro di Primo Levi: "Se non ora, quando?", che lo ha ripreso dalla raccolta del Talmud dei Detti dei padri (in ebraico: Pirke Avot) e che dice cos': «Se non sono io per me, chi sara' per me? E quand'anche io pensi a me, che cosa sono io? E se non ora, quando?».
Alcuni caposaldi di don Andrea mi sembra che si possano riassumere così:
- il dialogo come ascolto
- la libertà come dono di Dio da esercitare nella storia
- la giustizia come criterio di vita
- la dignità della persona
- la relazione
- la pace
- la Costituzione
Don Andrea è un prete scomodo, non tanto perché inquieta i potenti, anche, ma soprattutto perché il suo amore per l'uomo rende inquieta la coscienza di ciascuno di noi per aiutarci a scegliere l'amore.
Vi propongo ora poche pagine per invogliarvi a una lettura più approfondita e che merita rispetto per una vita dedicata ai piccoli e ai poveri di questo mondo.