Così dice l'autore, nato nel 1935, geografo, sociologo e politologo inglese:

«In questo libro cercherò di ristabilire una qualche comprensione della natura del flusso di capitale. Se riusciremo a capire più a fondo le perturbazioni e la distruzione a cui tutti siamo esposti, forse potremo cominciare a capire cosa fare al riguardo».

 

L'autore dal 2001 è professore di Antropologia alla Graduate School della City University di New York. Precedentemente è stato professore di Geografia presso le università di Oxford e John Opkins. E' disponibile online  (http://davidharvey.org/2008/06/getting-started/) il suo corso in inglese sul Capitale di Marx.

In questo libro Harvey pone un problema caratteristico del marxismo: quello del carattere strutturale delle crisi che il capitalismo attraversa, uscendone di volta in volta trasformato, ma anche consolidato e rafforzato. In particolare affronta il tema della crescita illimitata. L'approccio è classicamente marxista nelle forme, ma rinnovato nei contenuti ed estremamente duttile di fronte all'inedito scenario odierno, unendo competenze di geografia, geografia politica, economia e antropologia con raro equilibrio.

Harvey individua le premesse costitutive della crescitia illimitata del "flusso di capitale", speigandone il funzionamento e mostrando in che modo si tratti di un effetto interno e strutturale a un insieme di dispositivi tanto praticiche teorici, capaci di generare una sorta di illusione fondativa del sistema capitalistico.

Il libro si chiude con una analisi critica delle alternative percorse in passato e percorribili oggi per un socialismo sostenibile, giusto, responsabile e umano. (vedi anche le due appendici: la prima (leggi qui) sulle crisi dal 1973 ad oggi, la seconda (leggi qui) sulle innovazioni finanziarie el'ascesa del mercato dei derivati, sempre dal 1973 ad oggi).

 

Vorrei sottolineare come un professore di impostazione marxista abbia insegnato in università di paesi sostanzialmente capitalistici, mi pare una bella lezione da parte di tutti. Passiamo ora a una sintesi dei contenuti del saggio, in cui i testi seguenti sono quasi tutte citazioni originali.

Capitolo 1. Il flusso si interrompe

La crisi attuale vede continuare lo spostamento, già iniziato da alcuni anni, di ricchezza e potere economico da Occidente ad Oriente.

L'efficace politica di compressione dei salari attuata a partire dal 1980 ha permesso ai ricchin di diventare molto più ricchi. Ci dicono che questo è un bene, ma i ricchi investono non tanto in beni di consumo, quanto in attività finanziare, spingendo così al rialzo le borse e i beni che si possono  contrattare su un qualunque mercato, più o meno regolamentato e ufficiale.

Uno dei maggiori ostacoli all'accumulazione sostenuta del capitale e al consolidamento delal classe capitalistica negli anni sessanta è stato il lavoro IN europa come negli Stati uniti c'era pennuria di manodopera; i lavoratori erano ben organizzati ragionevolmente ben retribuiti e avevano peso politico. Il capitale aveva bisogno di attingere a bacini di manodopera meno cara e più docile e c'erano vari espedienti per farlo.

Uno era incoraggiare l'immigrazione.

Un altro modo era quello di sviluppare tecnologia a bassa intensità di lavoro, come la robotizzazione nelle fabbriche automobilistiche, ma qui i tentativi fallirono per l'opposizione dei lavoratori.

Uun altra è stata quella di usare il potere, come hanno fatto Pinochet e la Thatcher, per sconfiggere i lavoratori. Alan Budd, il massimo consigliere economico della Thatcher, ammise che «le politiche volte a contrastare l'inflazione con una contrazione dell'economia e della spesa pubblica, attuate negli anni ottanta, erano solo un pretesto per colpire i lavoratori e creare così un esercito industriale di riserva per fiaccare il potere del lavoro e permettere ai capitalisti di realizzare facili profitti per sempre». Sembra di capire che anche oggi stia accadendo qualcosa di analogo.

Un altra è stata la delocazzazione della produzione.

Con la brusca caduta del comunismo nel blocco sovietico, e più graudamente in Cina, si sono aggiunti circa due miliardi di lavoratori alla forza lavoro salariata globale, riducendo ulteriormente i salari di coloro che già lavoravano, e aumentando i profitti per i produttori.

La globalizzazione è stata agevolata anche da una profonda riorganizzazione del sistema dei trasporti, che ha ridotto i costi della movimentazione delle merci.

Un altro modo di risolvere il problema della domanda è stato quello di esportare capitale e coltivare nuovi mercati in giro per il mondo. Per caso si può leggere la primavera araba come un'occasione per aprire nuovi mercati e aggiungere nuovi consumatori?

Salvare le banche e spremere la gente (già negli anni '80 con il debito estero del terzo mondo) e oggi ancora. Perché questo approccio fosse veramente efficace, bisognava creare un sistema di mercati finanziari globalmente interconnessi. Negli Stati Uniti, dagli anni '70 sono stati rimossi gradualemtne tutti i vincoli geografici all'attività bancaria e, in particolare, hanno permesso la creazione di tipi di contratti che non sono regolamentati e non fanno parte del bilancio ufficiale delle grandi banche d'investimento, con gli esiti che abbiamo visto rispetto ai mutui ipotecari immobiliari negli Stati Uniti.

La relazione tra rappresentazione e realtà del capitalismo è sempre stata problematica. Il debito è collegato al valore futuro di beni e servizi. Questo comporta invariabilmente una congettura che viene proiettata nel futuro mediante l'applicazione di un tasso d'interesse. L'esplosione del debito a partire dagli anni '70 è legata a un'importante questione di fondo che chiamo «il problema dell'assobimento dell'eccedenza di capitale». I profitti vanno reinvestiti in nuovi sbocchi redditizi.

Durante tutta la storia del capitalismo, il tasso di crescita effettivo composto si è mantenuto prossimo al 2,25% all'anno (con valori negativi negli anni '30 e valori molto più elevati - quasi il 5% - nel 1945-1973). Tra gli economisti e nelala stampa finanziaria vige l'idea che un'economia capitalistica "sana", nella quale la maggior parte dei capitalisti realizza un profitto ragionevole, si espande del 3% l'anno; se la crescita è inferiore, l'economia è considerata stagnante, sotto l'1% si comincia a parlare di recessione e di crisi (molti capitalisti non realizzano profitti).

Negli anni '80, all'aumentare del capitale eccedente che confluiva nelal produzione, in Cina in modo particolare, la concorrenza tra produttori si è intensificata e aha cominciato a spinger ei prezzi al ribasso. Poco dopo il 1990 i profitti hanno preso a diminuire, nonostante l'abbondanza di manodopera a basso costo. La presenza dsimultanea di di bassi profitti e bassi salari è un'evenienza peculiare. Di conseguenza quantità sempre maggiori di denaro si sono riversate nelal speculazione sulle attività finanziariem poiché era lì che si potevano realizzare i maggiori guadagni. Perché investire nella produzione, dove i profitti erano scarsi, quando ci si poteva indebuitare in Giappone a un tasso di interesse quasi nullo e investire a Londra con un rendimento del 7%, coprendosi al tempo stesso da una variazione sfavorevole del tasso di cambpio yen-sterlina?

Il passaggio alla finanziarizzazione a partire dal 1973 è stato dettato dalla necessità, poiché rappresentava una maniera di risolvere il problema dell'assorbimento dell'eccedenza. Ma da dove veniva questo denaro in eccedenza? Già negli anni '90 la risposta era chiara: da un aumento del grado di leva finanziaria, cioè da un maggiore indebitamento. Di solito le banche finanziavano prestiti per circa 3 volte i denari raccolti nei depositi. Nel 2005 questo rapporto era giunto fino a 30 volte. Era come se i membri della comunità bancaria si fossero ritirati nell'attico del capitalismo a fabbricare un mucchio di denaro trafficando e indebitandosi tra loro, senza prestare la benché minima attenzione a cosa facessero i lavoratori che vivevano nel seminterrato. Ma quando le prime banche si sono trovate in difficoltà, la fiducia nel sistema bancario si è dissolta e  la liquidità fittizia, creata mediante la leva finanziaria, è evaporata. E' iniziato così un processo di riduzione dell'indebitamento, che ha determianto forti perdite e la svalutazione del capitale bancario. E' a questo punto che gli abitanti del seminterrato hanno capito cosa avevano fatto gli occupanti dell'attico nei vent'anni precedenti. Le politiche pubbliche, anziché mitigare il problema, lo hanno aggravato. Parlare di "salvataggio nazionale" è inesatto: in realtà i contribuenti stanno semplicemente salvando le banche e la classe capitalista, condonando i loro debiti e le loro trasgressioni e solo le loro!

Quel che è certo è che il modello angloamericano di sviluppo econommicom mondiale, che ha dominato nel periodo del trionfalismo neoliberista iniziato neglianni '90 è stato screditato. Occorre mettere dunque in discussione questo modello, se non vogliamo che riacquisti forza e ritorni in auge, cosa che sta già accadendo, combinando i medesimi disastri.

 

Capitolo 2. L'ammasso di capitale

Come riesce a sopravvivere il capitalismo? E perché è così incline alle crisi? Per rispondere a queste domande descriverò innanzitutto le condizioni necessarie affinché l'accumulazione del capitale possa prosperare; individuerò quindi i potenziali ostacoli alla crescita perpetuta e analizzerò come tali ostacoli sono stati superati in passato, per illustrare infine quali sono i principali impedimenti questa volta.

 

Il capitale non è un oggetto, ma un processo

nel quale il denaro viene mandato continuamente alla ricerca di altro denaro.

I capitalisti finanziari cercano di realizzare guadagni concedendo prestiti a fronte del pagamento di un interesse;

i capitalisti commerciali comprano a poco e vendono a molto;

i possidenti riscuotono rendite perché i terreni e gli immobili di loro proprietà sono risorse scarse;

i redditieri realizzano guadagni dalle royalty e dai diritti di proprietà intellettuale;

gli operatori di borsa negoziano titoli di proprietà (per esempio, a zioni societarie), titoli di debito e contratti (compresi i contratti assicurativi) realizzando un profitto.

Anche lo Stato può comportarsi da capitalista, come quando, per esmepio, usa le entrate tributarie per investire in infrastrutture che stimmolano la crescita e generano ulteriore gettito fiscale.

Ma la forma di circolazione del capitale che è diventata dominante dalla metà del diciottesimo secolo in poi è quella del capitale industriale o produttivo.

Perché dopo il 1980 le restrizioni all'eccessiva concentrazione del potere del denaro sono state allentate un po' ovunque,a cominnicare dagli USA? Le spiegazioni che pongono l'accento su un accesso improvviso di "avidità contagiosa" (come ebbe a dire l'allora presidente della Federal Reserve Alan Greenspan) non reggono, perché il desiderio di accumulare il potere del denaro esiste da sempre. Perché i ricchi sono diventati incommensurabilmente più ricchi ovunque? In assenza di limiti o ostacoli, la necessità di reinvestireper restare capitalisti spinge il capitalismo ad espandersi a un tasso composto. Si crea così il bisogno perpetuo di trovare nuove aree di attività per assorbire il capitale reinvestito: da qui il "problema dell'assorbimento dell'eccedenza di capitale". Se  la crescita non riprende, il capitale sovraccumulato si svaluta o va distrutto.

Esaminando il flusso del capitale attraverso la produzione di scoprono sei potenziali ostacoli all'accumulazione, che il capitale deve superare per potersi riprodurre:

1) l'insufficenza del capitale monetario iniziale;

2) la penuria o le difficoltà politiche nell'offerta di lavoro;

3) l'inadeguatezza dei mezzi di produzione, anche a causa dei cosiddetti "limiti naturali";

4) l'assenza di tecnologie e forme organizzative appropriate;

5) le resistenze o le inefficenze nel processo lavorativo;

6) l'assenza nel mercato, di una domanda sostenuta da una capacità di spesa.

(I capitoli successivi analizzano questi potenziali ostacoli)

 

 3. Il capitale si mette all'opera

L'applicazione del lavoro umano alla rilavorazione delle materie prime (come date in natura o già parzialmente mmodificate dall'azione dell'uomo) per produrre nuove merci ci porta direttamente al cuore del processo lavorativo, dove, sotto il controllo del capitalista, si preserva il vecchio valore e se ne crea di nuovo (inclusa l'eccedenza). E' qui che viene generato il profitto. Il lavoro riveste un'importanza fondamentale per tutte le fome di vita umane, poiché gli elementi presenti in natura devono essere convertiti in articoli utili per la comunità. Ma in virtù dei rapporti sociali dominanti nel sistema capitalista, il processo lavorativo assume una forma molto particolare, che consiste nle mettere insieme la manodopera, le tecnologia di produzione e le forme organizzative sotto il controllo del capitalista, per un periodo stabilito per contratto, per produrre merci a scopo di profitto.

Per quanto sia rigido l'apparato disciplinare, per quanto automatizzata sia la tecnologia e per quanto repressive appaiano le condizioni di lavoro, il processo lavorativo dà sempre luogo a un insieme complesso di relazioni umane. Una delle conquiste più insigni di Marx fu proprio quella di riconoscere che è il lavoratore, cioè la persona che effettua concretamente il lavoro, che detiene il vero potere nel processo lavorativo, anche se può sembrare che sia il capitalista a odere di tutti i diritti riconosciuti dalla legge e a manovrare la maggior parte delle leve politiche e istituzionali. Come hanno sottolienato pensatori marxisti quali MArio Tronti, fautori della cosiddetta prospettiva "autonomista", il rifiuto di cooperare costituisce potenzialmente un punto di ostruzione cruciale in cui il lavoratore ha il potere di imporre le sue condizioni.

Quando pensiamo alla lotta di classe, spesso la nostra immaginazione gravita verso la figura del lavoratore che combatte contro lo sfruttamento del capitale. Ma nel processo lavorativo (come succede in effetti anche altrove) la direzione della lotta procede in senso opposto: è il capitale che deve combattere con tutte le sue forze per ottenere la sottomissione del lavoro, proprio nel momento in cui quest'ultimo è potenzialmente onnipotente.

Bisogna riconoscere che i capitalisti impiegano abilmente un'ampia gamma di tattiche nel processo lavorativo; è in questo ambito, in modo particolare, che fanno leva sul potere delle differenze sociali a proprio esclusivo vantaggio. [...] La resistenza al cambiamento di questi rapporti sociali è ascrivibile tanto alle tattiche del capitale, quanto al carattere conservatoredei rapporti sociali stessi e al desiderio dei diversi gruppi di difendere i loro piccoli privilegi (persino l'accesso ai lavori mal pagati).

Il quadro che emerge dalle ricerche etnografiche dei processi lavorativi è caratterizzato da una varietà apparentemente infinita di rapporti sociali e di usanze culturali, quantunque all'interno di un sistema generale di coercizione.

 

4. Il capitale va al mercato

Nella storia delle teorie sulle crisi si osserva una tendenza a ricercare una causa dominante per spiegare la propensione alle crisi del capitalismo.

Le tre gerandi aree di pensiero tradizionali sono

- la compressione dei profitti (i profitti diminuiscono perché i salari reali aumentano)

- la caduta del saggio di profitto (le innovazioni tecnologiche che consentono economie di manodopera si rivelano controproducenti e la concorrenza "rovinosa" tira gi i prezzi

- le crisi di sottoconsumo (una carenza di domanda effettiva e la tendenza alla stagnazione associata a un'eccessiva monopolizzazione).

A mio avviso c'è una maniera molto più proficua di concepire la formazione delle crisi. L'analisi della circolazione del capitale consente di individuare diversi potenziali limiti e ostacoli:

- la scarsità di capitale liquido

- i problemi del lavoro

- le sproporzioni tra i settori

- i limiti naturali

- gli squilibri dei cambiamenti tecnologici e organizzativi (inclusa la contrapposizione tra concorrenza e monopolio)

- la mancanza di disciplina nel processo lavorativo

- la carenza di domanda effettiva

Una qualsiasi di queste circostanze può rallentare o interrompere la continuità del flusso di capitale, scatenando una crisi che dà luogo a una svalutazione o a una perdita di capitale.

Per esempio, le manovre intraprese negli anni settanta per alleviare una crisi di offerta di lavoro e contrastare il potere poitico del lavoro organizzato, hanno indebolito la domanda effettiva, creando, negli anni novanta, difficoltà per la relaizzazione dell'eccedenza di mercato. Per superare quest'ultimo problema si è cercato allora di estender eil sistema del credito alle classi lavoratrici; ma quando l'indebitamento di queste ultime è diventato eccessivo rispetto al reddito, si è innescata una crisi di fiducia negli strumenti del credito (come avvenuto a partire dal 2006).

Le tendenze alla crisi non vengono risolte, bensì continnuamente rimosse.

 

5. Il capitale evolve

Questo approccio consente di individuare sette distinte "sfere di attività" nell'ambito delal traiettoria evolutiva del capitalismo:

- tecnologie e forme organizzative;

- rapporti sociali;

- ordinamenti istituzionali e amministrativi;

- produzione e processi lavorativi;

- rapporti con la natura;

- riproduzione della vita quotidiana e della specie;

- "concezioni mentali del mondo".

Non c'è una sfera che domina su tutte le altre o che sia indipendente dalle altre; al tempo stesso nessuna sfera è determinata collettivamente da tutte le altre.

Ciascuna sfera si evolve automaticamente, ma sempre in un rapporto di interazione dinamica con le altre.

Le sfere di attività vengono rimodellate senza sosta dai complessi flussi che intercorrono tra l'una e l'altra. Tali relazioni non sono necessariamente armoniose. A ben vedere, possiamo riconcettualizzare la formazione delle crisi in termini delle tensioni e degli antagonismi che sorgono tra le diverse sfere di attività.  Ma invece di esaminare queste sfere in sequenza, come abbiamo fatto analizzando la circolazione del capatiale, nella discussione che segue le consideremo compresenti e soggette a un processo coevolutivo nell'ambito della lunga storia del capitalismo.

 

6. La geografia del tutto

In questo capitolo l'autore affronta la questione delle influenze dei fatti che accadono in una parte del mondo sulle diverse parti del mondo.

 

7. Distruzione creatrice sulla terra

Questo capitolo è molto interessante, per me, perché cerca di integrare la geografia con l'economia. Ne riporto la conclusione:

La ragione per cui è difficile integrare la fromazione della geografia in una teoria generale dell'accummulazione del capitale dovrebbe oramai essere chiara: questo processo è non solo profondamente contraddittorio, ma anche pieno di imprevisti, eventi fortuiti ed equivoci.

E' anche abbondantemente chiaro che la riproduzione del capitalismo comporta la realizzazione di nuove geografie, e che la realizzazioen di nuove geografie attraverso la distruzione creatrice del vecchio è una maniera molto efficace di risolvere l'onnipresente problema dello smaltimento del capitale eccedente. Ma anche la ricerca di una "soluzione" geografica al problema dell'assorbimento dell'eccedenza costituisce un pericolo sempre presente. Malgrado le innumerevoli analogie che vengono tracciate tra la crisi odierna e quella degli anni trenta, l'unico potenziale elemento ignorato è il fallimento della collaborazione internazionale, l'acuirsi delle tensioni geopolitiche e l'immane tragedia di una dei maggiori episodi di distruzione creatrice della storia dell'umanità: la seconda guerra mondiale.

 

8. Che fare? E chi lo farà?

In tempi di crisi l'irrazionalità del capitalismoè sotto gli occhi di tutti: nell'econommia sono presenti eccedenze sia di capitale sia di lavoro, senza che in apparenza si trovi il modo di rimetterle insieme in produzione, mentre le persone patiscono immense sofferenze e molti bisogni rimangono insoddisfatti. Nell'estate del 2009, negli Stati Uniti, un terzo del capitale produttivo giaceva inutilizzato, mentre i lavoratori disoccupati, costretti a occupazioni part-time oppure "scoraggiati" costituivano circa il 17% elal forza-lavoro. Cosa può esserci di più irrazionale di questo?

Affinché l'accumulazione del capitale torni a crescere a un tasso composto del 3% occorre trovare una nuova base per la realizzazione del profitto e l'assorbimento dell'eccedenza. L'approccio irrazionale adottato in passato per realizzare questo obiettivo è stato quello di distruggere le conquiste delle epoche precedenti mediante la guerra, la svalutazione delle attività, il degrado delal capacità produttiva, l'abbandono e altre fomre di "distruzione crreatrice".

Gli effetti che si producono in questi casi vengonopercepiti non soltanto nel mondo della produzione e dello scambio delle merci: molte vite umane vengono sconvolte, intere carriere e conquiste di una vita vengono messe a rischio, le convinzioni più profonde vengono messe in discussione, gli animi vengono feriti e il rispetto per la dignnità umana viene messo in disparte.

La distruzione creatrice non risparmia nessuno, né buoni, né belli, né brutti, né cattivi. Le crisi, possiamo concludere, sono i razionalizzatori irrazionali di un sistema esso stesso irrazionale.

 

Può il capitalismo sopravvivere al trauma odierno? Sì, naturalmente. Ma a che costo? Dietro a questa domanda se ne cela un'altra. La classe capitalista può riprodurre il suo potere malgrado le innumerevoli difficoltà economiche, sociali, politiche, geopolitiche e ambinetali? Ancora una volta, la risposta è un sonoro "sì, può".

Ma per far questo la massa della popolazione dovrà cedere generosamente i frutti del proprio lavoro a coloro che stanno al potere, rinunciare a molti diritti e valori patrimoniali conquistati con fatica (nei campi più disparati, dall'abitazione ai diritti pensionistici) e subire le conseguenze di un vasto degrado ambientale, per non parlare dell'abbassamento sistematico del tenore di vita, che, per quanti già faticano a sopravvivere negli strati più poveri della popolazione, significa rischiare di morire d'inedia. Per soffocare le agitazioni sociali che ne conseguiranno, sarà necessaria una dose massiccia di repressione politica, di violenza poliziesca e di controllo sociale militarizzato. Ma a questo si accompagnerà anche un cambiamento doloroso e dilaniante del centro geografico e settoriale del potere della classe capitalista. Infatti, se la storia ci insegna qualcosa, è che la classe capitalista non può mantenere il proprio potere senza modificare il proprio carattere e spostare l'accumulazione su una traiettoria diversa e verso nuovi spazi (come l'Asia orientale).

 

Nel mondo Occidentale non ci sono segni di una seria messa in discussione dei presupposti dell'ideologia liberista. L'idea che la crisi abbia origini sistemiche viene sollevata a malapena nei media istituzionali. I provvedimenti pubblici presi finora in Nord America e in Europa sono perlopiù una prosecuzione delle vecchie politiche di sostegno alla classe capitalista. Il "rischio morale", che è stato il fattore scatenante immediato dei fallimenti degli isititui finanziari, a seguito dei salvataggi bancari raggiunge vette mai viste.

Ci sono stati tentativi di proporre e realizzare alternative.

Il socialismo mira a gestire e a regolare democraticamente il capitalismo in modo da placarne gli eccessi e redistribuirne i benefici per il bene comune; il suo obiettivo è distribuire la ricchezza per mezzo di un'imposizione fiscale progressiva, mentre le necessità di base - come l'istruzione, la sanità e persino l'abitazione - vengono soddisfatte dallo Stato al di fuori del sistema di mercato.

Il comunismo, invece, cerca di scalzare il capitalismo creando un modo completamente diverso di produrre e distribuire beni e servizi.

 

Quanto più l'incertezza e la miseria perdureranno, tanto più verrà contestata la legittimità dell'attuale sistema economico e tanto l'esigenza di costruire un sistema alternativo si farà pressante, facendo apparire più urgente una riforma radicale contrapposta a soluzioni di emergenza per rappezzare il sistema finanziario.

Per esempio se quello a cui stiamo assistendo è il ritonrno di un "momento keynesiano" rimosso, che tuttavia pare orientato a salvare le classi alte, perché non reindirizzarlo verso le classi lavoratrici a cui Keynes originariamente mirava (non per necessità politicca, rammentiammolo, bensì economica)? Ironicamente, quanto più si intraprende una tale svolta politica, tanto più l'economia riguadagnerà una parvenza di stabilità almeno temporanea. Ma i capitalisti temono che ogni passo in questa direzione possa alimentare negli indigenti, negli insoddisfatti e negli espropriati un rinnovato senso del potere, incoraggiandoli ad avanzare ulteriori pretese (come fecero verso la fine degli anni sessanta); dai loro una mano, dicono, si prenderanno tutto il braccio. In ogni caso, per salvare il capitalismo da se stesso, i capitalisti dovranno rinunciare volontariamente a parte della loro ricchezza e del loro potere, e in passato hanno sempre opposto una strenua resistenza all'idea.

 

Certo, non si può rispondere al famoso interrogativo di Lenin "Che fare?", senza un'idea di chi possa farlo e dove.

Ma senza una visione motivante di cosa fare e perché è molto difficile che possa emergere un movimento anticapitalista globale. Ci troviamo dunque in presenza di un duplice ostacolo: la mancanza di una visione alternativa impedisce la forrazione di un movimento di opposizione, e l'assenza di un tale movimento preclude la formulazione di un'alternativa. Come si può dunque superare questa situazione d'impasse? Il rapporto tra la visione di cosa fare e perché, e la formazione di un movimento politico in grado di farlo, ha assunto un carattere circolare. Se si vuole sperare di realizzare un rinnovamento, questi elementi dovranno rinforzarsi a vicenda; in caso contrario la potenziale opposizione resterà per sempre bloccata in un circolo vizioso che vanificherà ogni prospettiva di cambiamento costruttivo, lasciandoci vulnerabili dalle future crisi del capitalismo, che si perpetueranno con risultati sempre più micidiali.

 

Il nodo centrale da sciogliere è piuttosto evidente. La crescita composta non può proseguire per sempre; i problemi che hanno afflitto il mondo negli ultimi trent'anni indicano che l'accumulazione ininterrotta del capitale va incontro a un limite che può essere superato soltanto con la creazione di finzioni che  non possono perdurare.

A questo si aggiunge il fatto che moltissime persone nel mondo vivono in codizioni di povertà assoluta, che il degrado ambientale sta sfuggendo di mano, che in ogni dove la dignità umana viene calpestata mentre i ricchi accumulano ricchezze su ricchezze sotto il proprio comando, e che le leve del potere politico, istituzionale, giudiziale, militare e mediatico sono soggette a uno stretto controllo politico così dogmatico da non essere in grado di far altro che perpetuare lo status quo.

 

I precedenti tentativi di creare un'alternativa comunista o socialista hanno commesso l'errore fatale di non tener viva la dialettica tra le diverse sfere di attività e di non aver saputo abbracciare le imprevedibilità e le incertezze nei movimenti dialettici fra le sfere. Il capitalismo è sopravvissuto proprio tenendo vivo quel movimento dialettico e accettando le inevitabili tensioni, incluse le crisi, che da questo deriveranno.

NOn c'è possibilità realizzabile in futuro che non scaturisca dallo stato esistente delle relazioni tra el diverse sfere. Interventi politici strategici all'intenro di ciascuna sfera e su due o più sfere possono spostare  gradualmente l'ordinesociale su un diverso percorso di sviluppo. Questo è continuamente ciò che fanno i leader avveduti e le istituzioni lungimiranti in contesti locali, quindi non c'è ragione di pensare che cisia qualcosa di particolarmente fantastico o utopistico in questo modo di agire.

- per prima cosa bisogna riconoscere che sviluppo e crescita sono due concetti differenti

- in secondo luogo le trasformazioni in ciascuna sfera esigeranno una profonda comprensione sia delle dinamiche interne degli ordinamenti istituzionali sia del cambiamento tecnologico in relazione a tutte le altre sfere d'azione. Si dovranno costruire alleanze tra tutti coloro che lavorano nelle diverse sfere

- in terzo luogo, sarà necessario misurarsi anche con gli impatti e le reazioni (incluse eventuali ostilità politiche) provenienti da altri spazi nell'economia globale

- infine è necessario pervenire ad un accordo di massima su alcuni obiettivi comuni: il rispetto della natura, l'egualitarismo radicale nei rapporti sociali, ordinamentiistituzionali basati su un senso dell'interesse comune, processi lavorativi organizzati direttamente dai lavoratori, la vita quotidiana intesa come libera esplorazione di nuovi titpi di rapporti sociali e soluzioni abitative, concezioni mentali che pongono enfasi sulla realizzazione di sé nel servire gli altri, innovazioni tecnologiche e organizzative orientate al perseguimento del bene comune anziché a sostenere il potere militare e l'avidità delle imprese.

Questi potrebbero essere i punti corivoluzionari attorno ai quali l'azione sociale potrebbe convergere e ruotare. Ma certo che è utopistico! E allora? Non possiamo permetterci di non esserlo.