Cesare deve morire
regia: fratelli Taviani
attori: reclusi del carcere di Rebibbia a Roma.
Film imperdibile anche se ora già di difficile reperimento nelle sale cinematografiche. Con mia moglie siamo usciti dalla proiezione ammutoliti dal realismo fascinoso dei fratelli Taviani e di questi attori particolari ma che recitano meglio di tanti attori di professione che si vedono al cinema o in tv.
L'intreccio che si sviluppa tra la realtà del carcere di Rebibbia a Roma e la storia del Giulio Cesare di Shakespeare è degno del miglior Pirandello. Il film non è per niente retorico e neanche ideologico, ma mostra la vita del carcere, il travaglio umano dei detenuti, le possibilità del teatro come luogo di ricerca e espressione di sé.
Il film è in bianco e nero, tranne la scena iniziale e quella finale, suggellata dalla frase di un detenuto condannato a fine pena mai (ergastolo): da quando ho conosciuto l'arte questa cella è diventata una prigione.
L'importanza di questo film, che ha vinto l'Orso d'oro a Berlino ed è probabilmente candidato all'Oscar come film straniero, è nell'interrogare la coscienza dello spettatore lasciandogli tutto lo spazio per poter reagire liberamente di fronte alle problematiche del carcere, il suo senso e la sua giustificazione, come luogo di reclusione e di riscatto, per una vita possibilmente migliore di quella precedente.
Un amico che lavora da anni nel settore del reinserimento di carcerati e di coloro che hanno finito la pena nel mondo lavorativo, mi ha regalato il libro di uno degli attori, Cosimo Rega (Sumino 'O Falco. Autobiografia di un ergastolano, Robin Edizioni, euro 18,50), che interpreta Cassio nel film.
Un ulteriore spaccato sulla vita di un detenuto condannato all'ergastolo che, proprio nelle parole dell'autore, mostra il cammino di perdizione e di ritrovamento di se stesso che ha coinvolto la famiglia d'origine, quella che si è formato, gli amici.
Il libro illustra la difficoltà di mantenersi vigili di fronte al male che si presenta come bene, sotto forma di scintillanti possibilità di successo nella vita: la seduzione del denaro, in particolare, in un ambiente che non offre grandi opportunità di ascesa sociale, la questione dell'onore e della parola data nella cultura campana. E' presente però anche la tenacia dell'amore di una donna e dei suoi figli verso quest'uomo e la capacità, dopo aver subito e provocato tanto male, di ritrovare una via per una vita che ha attraversato la morte - propria e altrui - per ritrovare la vita.
Uomini di Dio
Il fatto e la trama
Il film racconta una storia vera accaduta in Algeria nel 1996, dove una comunità di monaci benedettini operava in un piccolo monastero in favore della popolazione locale rifacendosi all’ antica regola cristiana dell’ Ora et Labora (“prega e lavora”). I monaci benedettini prestano anche assistenza medica alla popolazione locale di fede musulmana, ma la minaccia del terrorismo fondamentalista comincia ad essere sempre più presente.
Christian è l’abate eletto dalla comunità di monaci, e mentre il terrorismo fondamentalista si fa più pressante decide di rifiutare la presenza e la protezione dell’esercito a difesa del monastero. Una notte un gruppo armato fa irruzione nel convento dei monaci benedettini chiedendo assistenza medica per due terroristi feriti, ma le medicine richieste sono scarse e i monaci non possono cederle ai terroristi perché quelle poche medicine a disposizione servono per l’assistenza ai più deboli.
Gli eventi precipitano e la notte del 26 marzo i monaci vengono rapiti e uccisi. Di essi si ritroveranno solo le teste. Ancora oggi non si conoscono bene le vicende della loro morte.
Il commento
La prima considerazione è che il regista è un non credente che tuttavia non "ha sbagliato" una qualsiasi considerazione che riguarda la religione e la fede, sia cristiana che musulmana. E' un miracolo non da poco, di cui dobbiamo veramente ringraziare Dio. Come dice il Concilio (GS 44, paragrafo intitolato: L'aiuto che la chiesa riceve dal mondo contemporaneo) la chiesa "sente con gratitudine di ricevere, nella sua comunità non meno che nei suoi figli singoli, vari aiuti dagli uomini di qualsiasi grado e condizione".
La terza considerazione è sull'uso dei corpi in cui si incarnano pensieri, azioni, relazioni da parte di tutti: monaci, terroristi, croati, popolazione del villaggio, imam, prefetto, militari. Come non pensare al nostro copro e a quello che ne facciamo quotidianamente?
La quarta considerazione riguarda il fatto che la dimensione statuale è presentata in un modo tale che emerge la sua necessità, ma anche la sua antievangelicità, perché non permette l'umanizzazione di colui che vi si oppone, ma neanche di chi vi fa parte. La scena del riconoscimento del terrorista da parte del padre Christian è emblematica. Egli chiede una dignità, anche di fronte a un terrorista che ha compiuto atti di crudeltà inaudita, che non è compresa da parte dei militari. La disumanizzazione è ciò che permette di non considerare l'altro come una persona. (cito due libri in questo senso: R.Escobar, Il silensio dei persecutori, ovvero il coraggio di Sharazad, Il Mulino, Bologna 2001; M. Juergensmeyer, Terroristi in nome di Dio. Attraverso le religioni del mondo, un viaggio imprevedibile nella mente di chi uccide per fede, Editori Laterza, Bari 2003). Questo chiude ogni possibilità di dialogo con l'altro perché non ne riconosce la sua dignità di persona, ma la riduce a essere inferiore. La fedeltà dei monaci alla popolazione e a tutti coloro che hanno bisogno sono la questione centrale: essi ritengono che tutti sono persone. Lo stato, proprio perché pensa per numeri e non per persone singole, rischia di esere un ostacolo all'umanizzazione della vita sociale.
La frase di padre Luc, il medico, quando parla con il priore della sua stanchezza, e dice: "io non ho paura della morte, quindi sono libero", mi è apparsa la vera cifra di questa testimonianza evangelica. Là dove la morte si fa vicina alla vita (il giudizio di Salomone in 1Re 3,16-28 ne è un esempio "esemplare", poiché Salomone deve esporre coscientemente la vita alla morte per poter discernere con sapienza), si ritrova l'essenziale della vita, le scale di valori si risistemano e ritrovano le loro coordinate fondamentali: pensare alla morte come sapienza di vita di antica memoria monastica, e non solo.
L'ultima riflessione è sulla emozione che pervade il fim e che mi ha coinvolto, come credo tutti quelli che lo hanno visto. Non solo nella scena della consapevolezza della morte che si avvvicina sulle note di Ciajkowskij (è il finale del primo atto del lago dei cigni, ma non è la scena della morte del cigno, quando il genio del male Rothbart irrompe con tutta la sua violenza a impedire l'amore di Siegfried e Odette, trasformata in cigno), ma anche, per esempio nel dialogo con il prefetto che si scalda per il proprio paese che va alla rovina, nell'incontro con l'imam che non comprende quanto sta accadendo, nelle scene dei capitoli di comunità, nella visita medica del confratello, nel dialogo sull'innamoramento con la ragazza algerina, ecc. L'emozione che non diventa sentimentalismo, ma occasione di comprensione e sapienza di vita, l'emozione che fa fare scelte giuste, che diventa principio di conoscenza morale, come dice Roberta De Monticelli (L'ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Garzanti 2008), non a caso una donna filosofo.
La foto a destra in alto rappresenta i veri monaci, quelli che sono morti e quelli che sono sopravvissuti. La voluta somiglianza degli attori con i monaci è di straordinaria finezza filmica.