La verità vissuta e detta da Gesù
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Introduzione
Quando qualcuno parla, ci aspettiamo che dica la verità, così da poterci fidare della sua parola. Sappiamo che non sempre è così, ma che dovrebbe esserlo in linea di principio, come invita a fare Gesù: «la vostra parola sia sì, sì; no, no; infatti l'eccesso di queste viene dal male» (Mt 5,37).
Mi sono reso conto leggendo, meditando e studiando i vangeli, che ciò che Gesù dice a coloro che incontra lo ha sperimentato come verità di vita prima di tutto per se stesso.
Per questo egli dice una parola vera e degna di essere accolta, proprio perché l'ha sperimentata vera per sé.
Questo è il punto da cui vorrei partire per cercare di approfondire la coscienza che Gesù ha di sé.
Ciò che dice Gesù lo ha vissuto innanzitutto vero per sé, poi in rapporto al Padre, nello Spirito, e infine verso gli uomini.
E' una modalità di ricerca della coscienza di Gesù che non ho trovato esplicitata in nessuno studio da me conosciuto, ma che forse qualcuno ha già sviluppato prima di me. E' un metodo indiretto che credo possa portare prima di tutto dei frutti spirituali e, di conseguenza, dei frutti teologici.
Mi propongo di illustrare questa esperienza personale di Gesù con alcuni esempi significativi, e pertanto questo scritto non vuole essere, e non è, esaustivo, ma solo l'inizio di una ricerca che vorrei condividere con chiunque fosse interessato ad approfondire alcuni aspetti della coscienza di Gesù, con tutta l'umiltà necessaria, ma anche con la gioia di approfondire la relazione con colui che si offre di essere nostro amico.
- Parlare in verità
- Gesù e il Padre
- La rivelazione di essere Figlio
- Le tentazioni
- L'annuncio del regno di Dio
- Il perdono dei peccati
- La chiamata dei discepoli
- Le beatitudini
- La compassione
- Il duplice comandamento dell'amore
- Salvare la vita
- Le parabole del regno di Dio
Parlare in verità
Gli avversari di Gesù gli riconoscono un parlare vero: «Maestro, sappiamo che parli e insegni con rettitudine e non guardi in faccia a nessuno, ma insegni secondo verità la via di Dio» (Lc 20,21). Da dove nasce questa sua autorità nel prendere parola e nell'insegnamento?
Essa nasce dal suo singolare rapporto con il Padre. Gesù è in relazione unica con il Padre: egli conosce il Padre e il suo desiderio di vita per l'uomo, perché prima di tutto lo ha sperimentato vero per sé e su di sé. Questa esperienza di passività e di ricezione è quella che ha formato Gesù alla vera vita, al discernimento di ciò che è buono e giusto, al potere di fare il bene e di dare la vita, come il Padre: «Il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa» (Gv 5,19).
Gli scribi, come tutti gli interpreti, spiegano ciò che ha detto un altro. Essi non hanno l'autorità che viene da Dio, a differenza del profeta che pronuncia una parola di salvezza specificatamente e innanzitutto per gli uomini del tempo in cui vive. Il profeta è mandato da Dio alla propria generazione con una parola che è di svelamento di peccato, richiesta di conversione e consolazione per la salvezza che viene da Dio. Gesù, invece, è più che profeta, poiché ha una parola di salvezza per tutti e per ogni tempo, pur avendo parlato anche lui per la sua generazione, che diventa paradigma di tutte le generazioni.
Gesù ha sperimentato nella singolare relazione col Padre l'origine della salvezza e la santità di Dio: di questo egli parla con autorità.
Anche lo spirito impuro riconosce in Gesù la santità di Dio (Mc 1,24), la sua separazione totale dal male. Lo spirito impuro sa bene che nel confronto con l'origine buona della vita, che è Dio, non può che soccombere e, soprattutto, che non può più abitare nel corpo dell'uomo che possedeva. Il suo dominio, la sua autorità sull'uomo non è per il bene, ma per il male, al contrario dell'autorità che Dio esercita sull'uomo.
Gesù è venuto per riprendere autorità sull'uomo, e il suo potere è solo al servizio dell'unico e vero bene per l'uomo, creatura di Dio: la vita. La separazione del bene dal male è un processo veritiero che porta con sé un dolore che penetra nel cuore dell'uomo e lo strazia, ma che dà vita a chiunque lo compie accogliendo la volontà buona di Dio per lui.
Gesù e il Padre
Solo Luca ci riporta l'episodio di Gesù nel tempio e le parole da lui pronunciate (Lc 2,46-49). Ha dodici anni e lascia i genitori per andare nel tempio a discutere con i maestri della legge. Il testo lascia supporre un dialogo fatto di domande e risposte tra i maestri e Gesù, che suscita meraviglia in loro per la sua intelligenza.
Il testo non ci riporta il dialogo, tuttavia possiamo immaginarne il tenore complessivo. Partendo dalle Scritture, Gesù e i maestri dialogavano su Dio e sulla salvezza degli uomini. Per quanto un ragazzo di dodici anni possa essere intelligente, certamente è ancora agli inizi della vita, e dunque non può mostrare una sapienza che si è maturata nell'esperienza di una intera vita. Tuttavia alcuni punti fermi devono essere già presenti nella coscienza di Gesù, alcune certezze intuite e poi sviluppate nel corso della sua vita.
In questo è sicuramente stato aiutato dall'educazione di Maria e Giuseppe. Essi gli hanno trasmesso la loro fede nel Dio creatore che partecipa alla storia del popolo ebreo per condurlo sulle vie della giustizia e della pace. Giuseppe è uomo giusto (Mt 1,19) e Maria ha fatto una esperienza personale del Signore che riguardava direttamente Gesù (Lc 1,26-38), esperienza che l'accompagnerà nella vita e su cui tornerà a meditare più volte (Lc 2,51b).
La relazione che plasma la vita di Gesù è il suo rapporto con il Padre. Essa lo guiderà per la vita intera e Luca ce la rivela all'inizio del suo vangelo per farci entrare in questo rapporto privilegiato: «Non sapevate che è necessario che io sia/dimori nelle cose di mio Padre?».
Gli uomini cercano Gesù , mentre Gesù cerca il Padre per dimorare con Lui. Questa è una relazione misteriosa – come tutte le relazioni personali – che segna profondamente la personalità dell'uomo Gesù.
La coscienza dell'uomo si forma e cresce in pienezza grazie alle decisioni che prende a seguito delle relazioni che vive . Gesù è in relazione con il Padre attraverso l'ascolto delle Scritture dove si rivela l'agire di Dio nella storia a favore degli uomini e di Israele quale suo testimone privilegiato.
La relazione tra Gesù e il Padre si arricchisce nella meditazione e nella preghiera quotidiana, leggendo la storia del proprio popolo che, ancora una volta, vive un tempo di occupazione da parte di popoli stranieri e ha una sovranità limitata.
Gesù sperimenta la complessità della sua epoca, perché la vive con consapevolezza, anche a causa del suo lavoro se, come sembra, ha lavorato alla costruzione di Seforis, capitale romana della Galilea, a pochi chilometri da Nazaret dove viveva.
Con ogni probabilità aveva una spiccata coscienza politica e sicuramente si interrogava su come Dio sarebbe potuto intervenire, come aveva già fatto altre volte nella storia, per liberare Israele dalla dominazione straniera.
Di fronte alla predicazione di Giovanni, Gesù si sente attirato, vuole partecipare alla purificazione del popolo e si presenta a Giovanni per essere battezzato.
Ti rendo lode Padre, per la vita che mi hai dato, per quanto mi hai donato in questi anni di vita vissuta a Nazaret. Non sono sposato e ancora non comprendo dove va la mia vita. Lavoro, mi occupo di mia mamma, sento di vivere una vita buona, ma vorrei qualcosa di più. Il tuo popolo vive una stagione difficile, i romani ci governano, come fanno con i popoli intorno a noi, la vita non è facile. I nostri capi sembrano accettare di essere governati dai romani, altri vogliono ribellarsi. E poi c'è Giovanni nel deserto che ci chiede di convertirci dai nostri peccati. Voglio andare anch'io da lui nel deserto per comprendere meglio. So che convertirci a te ci ha sempre fatto bene, ci ha fatto sperimentare la tua salvezza. Voglio partecipare anch'io a questa conversione di popolo.
La rivelazione di essere Figlio
La parola di rivelazione che i sinottici testimoniano al momento del suo battesimo riguarda Gesù e la sua relazione con Dio. Qui egli è confermato nella sua intuizione di ragazzo: Dio per lui è Padre e quindi lui è figlio.
Gesù ne ha la conferma solenne al battesimo: «Tu sei mio Figlio, l'amato, in te mi sono compiaciuto» (Mc 1,11). Il verbo greco eudokeo (compiacersi) è composto da eu e dechomai e si può tradurre letteralmente: in te bene ho ricevuto; esplicitando ancora di più si potrebbe dire: in te c'è un bene che io accolgo con amore (di cui mi compiaccio), perché hai corrisposto all'amore con cui ti ho amato.
Gesù ha saputo accogliere il dono della propria vita personale da parte di Dio, riconoscendosi come generato dal Signore che considera come suo Padre, proprio perché lo ha generato.
Di fronte a questa rivelazione Gesù ha bisogno di un tempo per riflettere sul suo significato e si ritira nel deserto per stare alla presenza del Padre che lo ha riconosciuto come Figlio.
Nel deserto Gesù si interroga sul senso della propria vita e su cosa deve fare ora, come Figlio, per continuare a compiacere il Padre.
Gesù diventa consapevole che è giunto il tempo in cui il Signore, suo Padre, si fa presente in mezzo al popolo. Il grido che sale da Israele al Signore, come al tempo della schiavitù in Egitto , è forte. E' un fremito che percorre un popolo fiero della propria storia e della propria missione nel mondo. Tuttavia Israele ha anche conosciuto l'esilio a causa dei propri peccati, e la conversione che Giovanni richiede per accogliere il Signore è l'unica via per prepararsi alla sua venuta.
Al tempo dell'esodo Dio ha scelto Mosè per guidare il suo popolo alla libertà nel paese dove scorre latte e miele. Gesù probabilmente si è chiesto se il chiamato fosse per caso lui. Giovanni Battista ha dichiarato di non esserlo, anzi ha indicato proprio Gesù, come colui che deve venire per compiere una purificazione e una immersione nello Spirito Santo (Mc 1,8: «egli vi battezzerà con lo Spirito santo»). Battezzare vuol dire immergere, sprofondare.
Al Giordano Gesù è immerso e sprofondato nello Spirito di Dio e, da questo, spinto ad agire.
La memoria va a Geremia 31,31-34 e ad Ezechiele 36,25-28 . In particolare Ezechiele mette in relazione l'acqua, lo Spirito, un cuore rinnovato, la capacità di vivere secondo il comandamento nella terra data per questo scopo, accettare l'alleanza che il Signore propone.
Nel deserto Gesù si è quasi sicuramente persuaso di essere lui l'uomo scelto da Dio per annunciare la sua venuta, utilizzando l'allora comprensibile – più facilmente che per noi – simbolo del regno di Dio.
Padre, perché ti compiaci di me? In che cosa ti sono gradito? Sono venuto al Giordano da Giovanni per convertirmi a te e al regno che viene, al tuo amore misericordioso che ci ha accompagnato nei secoli, da Abramo fino ad oggi.
I tempi non sono facili, siamo dominati dai romani, e il popolo è in attesa della liberazione, come ai tempi della schiavitù in Egitto e dell'esilio a Babilonia. E anch'io attendo con trepidazione questo momento.
Ci mandi Giovanni, un profeta che ci parla del nostro peccato e ci indica la via della conversione.
In che cosa ti compiaci di me? Vengo da un villaggio della Galilea, Nazaret, e ho condotto una vita normale: lavoro, abito con mia madre che è rimasta sola, non mi sono sposato, vado il sabato alla sinagoga. Che cosa ti colpisce di questa vita normale? Ho bisogno di un tempo per riflettere, per comprendere meglio questa parola che mi hai rivolto mentre mi facevo battezzare da Giovanni. Vado nel deserto per fare silenzio, per cercare di capire cosa vuoi dirmi, qualcosa che io ancora non so. Quali strade nuove mi prospetti per la mia vita? Cosa vuoi da me?
Le tentazioni
A seguito della comprensione del ruolo d'Israele nella storia: essere testimone del Signore di fronte alle nazioni, Gesù nel deserto discerne e sceglie i modi, lo stile ed i mezzi con cui realizzare l'annuncio della venuta del regno di Dio.
Il racconto delle tre tentazioni nel deserto rende ragione di ciò che Gesù ha scartato: il miracolo, il potere, l'uso perverso della religione.
Per quanto riguarda le tentazioni nel deserto, esse ci aprono uno squarcio sulla coscienza di Gesù, la sua fede e la sua sapienza che si fonda nelle scritture. Gesù, oramai uomo maturo, denota una fede sicura che manifesta tre aspetti del suo rapporto con Dio.
Il primo riguarda l'importanza dei beni come doni di Dio per la vita, ma anche la loro relatività al Signore che li dona. Se ci si dimentica della loro origine, Dio, non si può vivere bene, perché si scambiano i mezzi per poter vivere con l'origine della vita. Secondo Matteo è importante vivere della parola di Dio, perché essa è il fondamento della vita, la luce che guida il cammino dell'uomo nella storia e che fa usare i beni con sapienza.
Il secondo è la confessione di fede di Gesù nel Dio d'Israele come unico e vero Dio cui rendere culto. Non il potere, o il denaro ad esso connesso, possono dare la vita all'uomo, ma solo una corretta relazione con il Dio creatore.
Il terzo illustra come non si può piegare Dio ai propri voleri, in quanto si costituirebbe una relazione di dominio su Dio, cosa impossibile, ma anche non opportuna in quanto verrebbe meno la libertà di Dio. E' nel dialogo reciproco tra uomo e Dio che le due libertà trovano la via per realizzarsi ciascuna nella propria pienezza.
Gli evangelisti Matteo e Luca mostrano la sicurezza di Gesù rispetto a questi tre ambiti della sua relazione con il Padre, segno che a questa svolta della propria vita ha compiuto le sue scelte fondamentali. Gesù ha deciso che la sua vita è al servizio di Dio, della sua parola che ascoltava con assiduità e che meditava in cuor suo e che ancora doveva rivelargli la via del singolare compimento della propria vita.
La vera tentazione è quella di cercare il potere per governare il mondo credendo che basti ordinare di fare il bene, perché il bene venga compiuto dagli uomini e dalle donne. Questo però avverrebbe facendo un patto con il diavolo che uccide la libertà dell'uomo. Dio ordina promuovendo la libertà dell'uomo e rispettando la possibilità di un rifiuto, mentre il diavolo ordina chiedendo un patto di totale sottomissione; in questo modo toglie all'uomo la sua libertà di poterlo rifiutare.
Padre ora so cosa vuol dire essere tentato da satana, colui che vuole separarci da te, nostro creatore. Egli si muove con astuzia, ma tu ci hai dato la sapienza del tuo Spirito per potergli resistere. Ti ringrazio per la fede di Maria e Giuseppe che mi hanno educato al discernimento del bene e del male, ti ringrazio per la tua parola che vive nelle Scritture: esse ci nutrono il cuore, ci rivelano la tua fedeltà nei secoli, alimentano la nostra speranza e ci aiutano a non farci ingannare dalla voce del serpente, come è accaduto ad Adamo ed Eva.
Il tuo compiacimento mi ha aiutato a rimanerti fedele davanti all'ingannatore, la memoria della salvezza mi ha aiutato a continuare ad avere fiducia in te e non nel potere.
Grazie per la tua vicinanza e per il conforto che mi hai dato nel deserto, là dove hai voluto educare il tuo popolo alla libera fedeltà nei tuoi confronti.
L'annuncio del regno di Dio
Gesù sceglie così uno stile di predicazione avendo oramai ben presente:
- lo scopo della sua predicazione: annunciare il Signore che viene a regnare e la conseguente richiesta al popolo di convertirsi al Signore per accoglierlo degnamente;
- i destinatari principali: le pecore perdute della casa d'Israele (ma altri si aggregano a vario titolo e quasi di sfuggita);
- i mezzi: la parola e la testimonianza per la vita minacciata dalla malattia, dal peccato, dalla morte;
- non compiere questa missione da solo: ha scelto i discepoli affinché stessero con lui per poter poi annunciare il regno di Dio come lui.
Fatte queste scelte Gesù è ora pronto ad annunciare il suo messaggio, che ritiene essere uguale a quello di Giovanni : «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1,15).
E' interessante notare come gli evangelisti non ci hanno voluto far prendere parte a questo processo di decisione di Gesù. Forse non avevano testimonianza diretta di ciò. Forse i discepoli non ne avevano parlato con Gesù; questo mi sembra improbabile perché sicuramente avranno voluto sapere qualcosa della sua relazione con il Padre e come aveva sentito la chiamata a predicare la buona notizia della vicinanza del regno di Dio. Tuttavia, su tutto ciò abbiamo un riserbo quasi assoluto da parte dei narratori, come se avessero voluto preservare questo mistero della vita di Gesù. C'è del pudore in tutto questo: da parte di Gesù o dei discepoli? I discepoli lo hanno evitato per non sminuire la sua divinità, nel caso avessero mostrato troppo la sua umanità? Perché incapaci o impossibilitati a narrare questo aspetto della vita di Gesù? Perché non era significativo per la nostra fede? Possiamo solo constatare questo silenzio della narrazione.
Gesù ha preso le sue decisioni fondamentali, convinto della vicinanza del regno di Dio, se l'annuncio che ne ha fatto era così pressante da richiedere la conversione e l'assenso. Gesù ha vissuto per un lungo periodo a Nazaret e ha sperimentato la vicinanza di Dio attraverso i suoi genitori e il loro insegnamento, come ho accennato precedentemente.
Secondo Matteo, Gesù riprende l'annuncio di Giovanni Battista, che lo ha portato sulle rive del Giordano per seguire il cammino penitenziale di quella parte del popolo ebraico che accoglieva il messaggio di Giovanni.
L'annuncio del Regno si accompagna con la consapevolezza da parte di Gesù che la sua generazione doveva farsi perdonare molti peccati. Gesù la ritiene perversa, adultera, peccatrice, malvagia e incredula, che sarà condannata da quelli di Ninive nel giorno del giudizio, se non si ravvederà . Pur usando toni particolarmente duri, Gesù non ha dubbi su ciò che sta accadendo alla sua generazione: Dio si fa vicino secondo la modalità del Regno e occorre quindi convertirsi per essere degni di accogliere la sua venuta.
Gesù ha sperimentato per primo questa vicinanza di Dio, una vicinanza benevola che vuole la vita del peccatore e non la sua morte, secondo quanto annunciato da Ezechiele: «Forse che io ho piacere della morte del malvagio – oracolo del Signore – o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?» (18,23), vicinanza ben illustrata dal comportamento di Gesù quando, per esempio, gli portano una donna adultera colta in flagranza di colpa e che la legge condannava a morte tramite lapidazione (Gv 8,1-11). Gesù la salva dalla lapidazione chiedendole di non peccare più. Così facendo Gesù salva anche coloro che gliela portano dal commettere un omicidio, chiedendo loro, implicitamente, di non peccare più, visto che se ne vanno senza lanciare una pietra riconoscendosi peccatori, dunque non migliori di quella donna e bisognosi anche loro di conversione.
Tutto l'agire di Gesù ha come obiettivo quello di portare i suoi interlocutori ad accogliere con cuore puro Dio che si fa vicino rendendosi conto che questa vicinanza si sta realizzando nella sua persona. Gesù è consapevole dello Spirito di Dio che lo abita con la sua potenza («Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti» Lc 6,19; «Ma Gesù disse: Qualcuno mi ha toccato. Ho sentito che una forza è uscita da me» Lc 8,46). Questa singolare coscienza di sé è ciò che rende unica l'esperienza di Gesù, è la sua consapevolezza e coscienza del dono dello Spirito ricevuto nel battesimo al Giordano. Anche noi a volte sperimentiamo che il nostro agire è in consonanza con quello di Dio, ma in Gesù questa esperienza è realtà quotidiana, continua e consolidata a seguito della rivelazione ricevuta al battesimo nel Giordano: «Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento» (Lc 3,22).
Gesù sa ed è consapevole che il compiacimento di Dio per qualcuno è in vista della salvezza di tutti. Ricevere il bene da Gesù, il Figlio amato, per il Padre significa che la vita di Gesù è al servizio della salvezza, che consiste nella conversione a Dio per agire in modo buono e giusto. Di questo è cosciente anche Gesù.
Gesù proclama la buona notizia, il vangelo di Dio (Mc 1,14) il cui contenuto è l'annuncio della vicinanza del regno di Dio.
Il racconto di Marco non esplicita ulteriormente – in un primo tempo – il contenuto della predicazione di Gesù, ma accompagna l'annuncio con alcuni episodi di guarigione.
Solo in 2,5 Gesù annuncia al paralitico che gli sono rimessi i peccati, ulteriore approfondimento del contenuto dell'annuncio.
Quello che ho sperimentato vero per me lo posso ora annunciare ai miei fratelli. Ho sentito la tua vicinanza, Signore, nella mia vita a Nazaret. Ci hai mandato Giovanni per farci convertire dal nostro peccato come segno del tuo amore per noi. Tu ci inviti a una vita giusta,
pur sapendo bene come il nostro cuore sia duro e incapace di giustizia. Siamo sbandati, come pecore senza pastore, i nostri capi sono conniventi con i Romani, non ci opprimono come loro, ma ci impongono pesanti fardelli. Non siamo stati capaci di vivere nella libertà che ci hai donato facendoci uscire dall'Egitto e dall'esilio a Babilonia. Cosa ci attende ora? Quali strade nuove stai preparando per noi per finalmente farci percorrere la via della giustizia e della pace? Voglio anch'io fare la mia parte, per quanto è in mio potere: far prendere coscienza ai miei fratelli che è il tempo opportuno per finalmente convertirsi a te e al tuo amore. Questo annuncerò per le strade, scegliendo alcuni che possano accompagnarmi e che sentano come me questa urgenza. A chi crederà all'annuncio e si convertirà al tuo amore, annuncerò il perdono dei peccati perché tu vuoi questo.
Il perdono dei peccati
E' impossibile riferire direttamente a Gesù la coscienza del peccato. Tutta la riflessione teologica, a partire dagli scritti del nuovo Testamento, afferma chiaramente come Gesù non abbia fatto esperienza del peccato personale (Eb 4,15: «Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato»). Egli è stato trattato da peccato (2Cor 5,21: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui potessimo diventare giustizia di Dio») e tuttavia la sua coscienza di uomo si deve essere formata nel tempo, come quella di tutti noi, consapevole quindi del peccato degli uomini e forse si è interrogato anche sulla possibilità di avere peccato. A questa domanda forse ha dato una risposta negativa, valutando come la Scrittura presenti l'esempio di almeno un uomo, Giobbe, che si è ritenuto giusto, e che non è stato smentito da Dio, anzi è stato lodato per il suo dire retto (Gb 42,7-8). Certo il libro di Giobbe è un racconto simbolico per indagare una problematica che ha interrogato gli uomini di tutti i tempi.
Gesù deve essersi sentito avvolto a tal punto dall'amore del Padre che, forse con tremore in quanto creatura, si è reso conto che tale abbandono fiducioso al Padre lo abbia preservato dal peccare. Per questo può predicare il perdono dei peccati a coloro che hanno fede nell'amore di Dio.
Padre, sono consapevole del mio essere tua creatura e sono consapevole del tuo amore per me. In questo amore io vivo e credo e spero di essere rimasto sempre fedele al tuo amore. Non so se ci sono riuscito, ma ti ringrazio per la torà che ci hai donato, via di giustizia e di pace. So che tu perdoni il peccato a coloro che si pentono e si convertono dalla loro condotta malvagia. Questo voglio annunciare ai miei fratelli perché so che vivono nella timore che i loro peccati non possano essere perdonati da te. Solo chi non ha fiducia nel tuo Spirito, chi non ha fede in te, non potrà essere perdonato da te, proprio perché non ha fiducia in te. Io però vorrei intercedere anche per costoro, perché forse, come anche gli altri, non ti conoscono come ti conosco io, non hanno ancora fatto esperienza del tuo amore, come ci annunciava Geremia («Non dovranno più istruirsi l'un l'altro, dicendo: "Conoscete il Signore", perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore -, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato» 31,34).Conoscerti è stato il mio desiderio fin da bambino e ti ringrazio per esserti fatto conoscere da me in modo così intimo e vitale.
La chiamata dei discepoli
Gesù, consapevole della propria missione, raduna attorno a sé dei discepoli e li sceglie tra coloro che accolgono il suo messaggio. Gesù li trasforma da pescatori di pesci in pescatori di uomini rimandandoli al comandamento originario di un dominio mite sulla natura . Forse Gesù ha presente anche Qoelet e Geremia , non per far abbattere la sventura sui suoi fratelli, ma la salvezza.
Gesù si considera forse anche lui un pescatore di uomini – come il Signore – e vuole associare a sé e alla sua missione coloro che già praticano questo mestiere e dunque possiedono una sapienza su come prendere nella rete degli animali, esperienza da trasferire sugli uomini? Gesù vuole imparare questa sapienza? Non sappiamo, tuttavia Gesù associa a sé dei pescatori, e non solo, per coinvolgerli nel suo farsi vicino agli uomini e alle donne che lo cercano e lo incontrano, così che possano loro stessi fare esperienza di esser presi nella rete da Dio non per la morte, ma per la vita e la salvezza. In questo modo possono essere educati al servizio dei fratelli e non al dominio su di essi e sulle loro coscienze.
I discepoli di Gesù hanno forse fatto la stessa esperienza di Geremia che si è sentito sedotto dalla parola e dall'amore del Signore (Ger 20,7) e ha trovato così la forza per la sua predicazione?
Gesù ha associato a sé i Dodici non per farli suoi servi, ma suoi amici , per condividere la sua vita con loro e amarli fino alla fine (Gv 13,1). Solo alla fine, dopo la morte e la resurrezione di Gesù gli undici rimasti comprendono quello che Gesù ha fatto per loro, risparmiando loro la morte e perdonando loro il tradimento di fronte alle difficoltà di una possibile persecuzione.
Se durante il suo evangelizzare il popolo li ha scelti «perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demoni» (Mc 3,14), la loro formazione si completa solo quando incontrano il risorto e comprendono che la morte non ha più potere sulla vita di Gesù e quindi sulla loro. Per questo Gesù li ha scelti per farli diventare pescatori di uomini.
Padre, ho fatto bene a coinvolgere dei miei fratelli nell'annuncio della loro salvezza. Essi hanno vissuto con me il travaglio della mia missione e si sono resi conto della gioia di annunciare il tuo amore e delle difficoltà che questo comporta, fino a condividere la morte perché la vita trovi il suo compimento. Questa sapienza della vita tu hai voluto che solo io la potessi sperimentare in prima persona, così che essi potessero farne esperienza vivendo in amicizia con me. All'inizio non ero sicuro di questa scelta, ma essi mi sono stati di aiuto e di conforto durante la mia predicazione, anche se solo dopo la mia resurrezione hanno compreso quanto ho condiviso con loro nell'amicizia che ci ha legati in questi anni di vita vissuta insieme sulle strade di Israele. Spesso ho avuto dei dubbi sulla mia missione e sul fatto di averli coinvolti in questa avventura che si è mostrata piuttosto pericolosa, ma capace di portare la vita. Nei secoli abbiamo visto che questa è la strada migliore per coinvolgere gli uomini nel far sperimentare loro questa sapienza di vita, tuttavia associare qualcuno al proprio destino è sempre difficile: lasciargli la libertà e al contempo sedurlo con la bellezza della via scelta, come tu hai fatto con me al Giordano.
Le beatitudini
Gesù ha meditato nelle Scritture le difficoltà del suo popolo e di alcuni protagonisti della sua storia, la mancanza di speranza, la constatazione di una felicità promessa agli uomini espressa soprattutto nei Salmi e nei Proverbi, in cui era dichiarato felice chi osservava la Torà, chi confidava nel Signore, chi era perdonato dal Signore, chi si prendeva cura dei poveri.
Gesù sente una profonda compassione per tutto il popolo e per singole persone in varie occasioni. Predicando vede come le folle sono assetate di una parola di vita e di speranza e chiede ai discepoli di pregare il Signore di mandare operai ad annunciare il regno di Dio ed egli stesso manda i suoi discepoli ad annunciarlo. In seguito ha compassione della folla che lo circonda , per cui guarisce gli infermi e moltiplica i pani per due volte.
Il comune sentire con il Padre e il suo Spirito lo rende capace di parole di consolazione per chi si trova in situazioni di vita diminuita e la cui speranza è minacciata e delusa dalle difficoltà della vita. Gesù annuncia la beatitudine a tutti coloro che vivono la loro esistenza temendo che il loro desiderio di una vita degna non possa realizzarsi, proprio per sostenerli nella loro fatica di vivere.
Egli non dichiara felici le situazioni di vita diminuita, queste non possono esserlo mai, tanto meno per Dio autore della vita. Sono le seconde parti delle beatitudini che rendono felici gli uomini: se sei povero, il regno dei cieli è tuo; se sei nel pianto, sarai consolato;...
Gesù non annuncia la beatitudine all'uomo credente, ma a colui che fa esperienza di varie condizioni di vita. Le situazioni di beatitudine non sono caratterizzate in quanto esperienze religiose, ma semplicemente sono situazioni di vita di cui tutti possiamo fare esperienza, credenti o meno nel Dio di Gesù. A tutti Gesù offre la certezza che il Padre suo sarà loro vicino.
Possiamo dire che Gesù ha sperimentato vere per sé le beatitudini nella sua vita a Nazaret? Non abbiamo un testo su cui appoggiarci e dunque questa domanda rimane senza risposta, tuttavia possiamo ritenere dal racconto della vita pubblica di Gesù che egli ha sperimentato le beatitudini.
Gesù è povero in spirito, ha pianto , è mite , ha fame e sete di giustizia, è misericordioso, è puro di cuore, è operatore di pace, è perseguitato per la giustizia . Può così associare a sé coloro che saranno perseguitati a causa sua, come è stato perseguitato lui a causa del regno di Dio.
Signore, il popolo è stanco, oppresso, siamo esiliati nel nostro paese. Voglio fargli conoscere il tuo amore che ho sperimentato di persona e che ho visto all'opera nella nostra storia. Voglio confortare il loro cuore deluso e disilluso, un po' disperato e ravvivare quel poco di speranza che sempre c'è sotto la cenere della fatica di vivere, perché la speranza dell'uomo in un futuro migliore non viene mai meno, anche se spesso è messa a dura prova. Beati i poveri perché tu gli sei vicino con il tuo amore, beati quelli che soffrono perché tu li consoli, beati quelli che sono capaci di misericordia, perché la riceveranno a loro volta, beati i puri di cuore, perché sono capaci di vederti all'opera nella storia, beati quelli che operano per la pace, perché sono tuoi figli, tu che cerchi la pace come io cercherò di essere pace , beati i perseguitati per causa mia, perché tu li ricompenserai.
La compassione
Per questa sua esperienza personale di compassione, che ho illustrato poco sopra, Gesù può raccontare le due parabole della compassione: il samaritano (Lc 10,25-37) e il padre che accoglie il figlio perduto (Lc 15,1-32). Gesù parla di ciò che vive e sperimenta vero prima di tutto per sé: la compassione del Padre per lui e per il popolo cui appartiene. Egli sviluppa così una comunione profonda con il Padre, nei confronti del suo popolo che incontra sulle strade sente quello che sente il Padre; ha gli stessi sentimenti di colui che sperimenta come un Padre che ha compassione dei suoi figli, e di lui, Gesù, in modo singolare.
Se per noi moderni la compassione ha un gusto po' sentimentale, per Gesù è invece un agire concreto per la vita di chi soffre, sia nel fisico che nello spirito: l'uomo bastonato e derubato dai briganti e il figlio minore. Entrambi soffrono nel corpo: l'uno bastonato, l'altro per la fame, ed entrambi soffrono nello spirito: l'uomo per la violazione della sua persona, il figlio per il proprio peccato.
Voglio ringraziarti della tua compassione, Padre. Il tuo non è un sentimento ma un agire che si fa concreta vicinanza e donazione di vita. Ti sei preso cura del nostro popolo schiavo in Egitto, del suo peccato nella terra promessa e, per compassione, lo hai mandato in esilio a Babilonia, perché conoscesse la tua compassione e si ravvedesse dal suo peccato. Le vie della tua compassione sono misteriose e ti ringrazio per avermele rivelate, fino a comprendere cosa significhi per me avere compassione del nostro popolo, l'umanità: vivere il mistero pasquale come via di salvezza per loro, per me e anche per te.
Il duplice comandamento dell'amore
Il comandamento dell'amore mi ha sempre intrigato: in che cosa sono simili l'amore di Dio e l'amore dei fratelli come ci si ama? E in che cosa differiscono? Cosa vuol dire amare se stessi con cuore puro? Che senso ha il detto che per amare se stessi occorre dimenticarsi di se stessi? Fino alla morte? Domande che mi sono fatto e che mi hanno fatto in varie occasioni e che forse non troveranno mai una risposta in un discorso, risposte che sono state invece vissute concretamente da coloro che riconosciamo come capaci di amore: i grandi santi, ma anche i nostri vicini che si dedicano con amore alla loro vita, alla famiglia, al lavoro, agli amici, a chi incontrano sulla loro strada.
Provo ora a dire quello che mi pare di aver compreso di ciò che Gesù ha sperimentato vero per sé, così da poterlo dire a noi con la forza di colui che lo ha vissuto in modo originale.
Siamo esseri di relazione, come Dio è relazione. Se così non fosse non ci avrebbe creato. Egli si è legato liberamente a noi con un vincolo di amore, libero e responsabile.
Dio vive e il suo amore per sé si sostanzia nel continuare a vivere. Se Dio si togliesse la vita tutto finirebbe e non sarebbe più il vivente, ma il morto. E con lui tutto il creato morirebbe, perché esso vive perché lui vive.
Quando Dio chiede a Mosè, sul monte, se vuole un popolo nuovo al posto di quello che sta costruendosi un vitello d'oro, il discorso di Mosè ci mostra come un Dio che non è fedele alla sua parola non è un Dio credibile. Mosè mette in gioco la fama che Dio si farebbe di fronte agli egiziani dai quali sembrerebbe aver liberato con malizia/malvagità il suo popolo, malvagità dovuta a una liberazione che si concluderebbe con una morte nel deserto. Non è possibile che Dio sia capace di tanto, di fronte al suo popolo che si mostra di dura cervice.
In Gesù il vero amore per sé è quello per i fratelli. Gesù ama se stesso quando ama noi, perché egli ha stima di sé quando ama noi, sente che questo amore per noi è ciò che gli dà la vita.
Amore di sé è trovare la verità di ciò che ci fa vivere: l'amore per il fratello. Senza il fratello, io muoio, proprio perché sono costituito dalla relazione con il mio fratello: io non posso vivere senza di lui, se lui muore, viene meno la relazione che mi costituisce e muoio anch'io.
Questa verità esistenziale è stata sperimentata fino in fondo da Gesù che può rispondere al dottore della legge che lo interroga su quale sia il più grande comandamento della legge nel modo che sappiamo.
I tre vangeli sinottici presentano delle differenze raccontando il medesimo episodio. Per esempio Luca lo anticipa rispetto a Marco e Matteo e lo illustra con la parabola del buon samaritano. Inoltre Luca fa enunciare all'interlocutore di Gesù la risposta che trova nella Legge, mentre in Marco e Matteo è Gesù stesso che mostra quale sia il grande comandamento.
Una delle particolarità di Matteo è quella di dichiarare la similitudine tra il secondo comandamento: «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22,39) e il comandamento grande e primo «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente» (Mt 22,37).
Proviamo a chiederci in che cosa per Gesù, secondo Matteo, il secondo è simile al grande e primo comandamento. Questa risposta di Gesù non è solo una sintesi di quello che credono gli ebrei ancora oggi, ma è prima di tutto una sua esperienza personale.
Gesù ama il Padre con tutto se stesso: ogni fibra del suo corpo, della sua mente e del suo spirito è coinvolta nella relazione con il Padre. Poiché ama il Padre, Gesù lo conosce e fa esperienza del suo amore per sé come uomo e per tutti gli uomini. Gesù sa che il Padre ama gli uomini che ha creato e proprio perché lo ama con tutto se stesso, Gesù ama i figli di Dio, suoi fratelli, con l'amore che è simile all'amore per il Padre.
La similitudine consiste in una somiglianza e in una differenza.
La somiglianza sta nell'amare con tutto se stesso sia Dio che i fratelli; la differenza sta nell'oggetto di questo amore: Dio e i fratelli. L'amore per Dio viene prima ed è più grande, perché è la relazione che ci costituisce figli, creati e amati dal Dio vivente, ed è proprio questo amore che fa rivolgere Gesù verso gli uomini.
L'amore per il prossimo è uguale all'amore di sé: ce lo dice il come, che indica la modalità con cui si realizza l'amore del prossimo e di sé. Se l'amore del prossimo è caratterizzato dal fatto che tutta la persona è coinvolta, così anche l'amore di sé richiede il medesimo coinvolgimento totale. Sappiamo bene come l'amore di sé possa rivelare degli squilibri sia in senso eccessivo: a scapito dei fratelli, che in senso defettivo: a scapito di sé medesimi.
La sapienza di questo amore la si acquista facendo esperienza dell'amore di Dio per tutti gli uomini, ed io che leggo sono tra questi.
E' nella relazione d'amore di Dio per l'uomo che possiamo vedere, conoscere e fare esperienza di come si può amare contemporaneamente sé e l'altro, senza che nessuno dei due attori della relazione si perda o perda l'altro.
Gesù ha vissuto di questo amore e ne ha compreso il mistero, sapendo che il Padre non avrebbe lasciato né lui né noi in balia della morte.
Spesso si sente dire che bisogna amare l'altro fino a dimenticarsi di se stessi, una reminiscenza dello svuotamento di Gesù che ci è illustra nell'inno di Filippesi 2 (v. 7, la kenosi di Gesù). Tuttavia tale svuotamento non è un dimenticarsi di se stessi, ma è invece il compimento di se stesso come Dio e, soprattutto, come uomo.
Affidando la propria vita a Dio per salvare il fratello non ci si dimentica di se stessi, ma si compie fino in fondo un atto di fede, consegnando se stessi a colui che ci ha creato.
Ogni uomo è chiamato ad amare il fratello con tutto se stesso e dunque non può dimenticare se stesso. Invece proprio perché ama con tutto se stesso i fratelli, Gesù vive questo amore come la pienezza della sua relazione con il Padre. E' nella relazione piena con il Padre che Gesù ci ama.
Per questo ha potuto consegnarsi alla morte in nostro favore, perché così facendo ha amato se stesso con tutto se stesso, sapendo che la sua vita, come la nostra, è nelle mani del Padre che ci ama con tutto se stesso.
L'amore di sé è sempre mediato dall'amore che Dio ha per noi. Tra me e me c'è sempre Dio, perché egli è l'origine e il fine della mia vita. E se c'è Dio ci sono anche i fratelli che egli ama, poiché noi siamo sempre in relazione sia con Dio che con i fratelli.
La nostra vita è una relazione triangolare tra noi stessi, i fratelli e Dio, ed è l'amore di Dio che la tiene viva e la fa crescere per portarla a compimento: una donazione piena a Dio e ai fratelli di tutto ciò che siamo.
Questo è ciò che comprendo del grande comandamento e che credo sia quello che Gesù abbia vissuto e sperimentato vero per sé, così che quando lo scriba lo interroga egli parla per esperienza viva e non solo per dottrina condivisa.
Un esempio di questo compimento dell'amore di Gesù per i fratelli è ciò che dicono di Gesù coloro che hanno portato un muto che parla ora correttamente dopo la guarigione: «Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti!» (Mc 7,37). E' proprio il fare bene ogni cosa che denota l'amore portato a pienezza che Gesù vive nella relazione con i fratelli del suo popolo.
Signore io ti amo con tutto me stesso, come preghiamo in quanto ebrei con fede tutti i giorni, e in modo simile mi hai insegnato ad amare il mio prossimo come amo me stesso. Il tuo amore per me mi aiuta ad amarmi nella mia fragilità umana, tentato dal diavolo, esposto alla malattia, al non amore dei miei fratelli. Maria e Giuseppe, i miei genitori, mi hanno insegnato ad amarmi, perché si sono presi cura di me facendomi crescere nel loro amore che hanno a loro volta imparato da te: mi hanno dato dignità, mi hanno ascoltato quando da fanciullo ero preso da Te in un modo che loro non capivano, e che tuttavia erano stati proprio loro ad insegnarmi. Ma io so che il tuo amore per me è anche il tuo amore per i miei fratelli ebrei e per tutti gli uomini e le donne delle altre nazioni, perché tu hai creato tutti i popoli e vuoi il loro bene. Per questo li amo dello stesso amore con cui amo me. La vita che desidero per me è la stessa che desidero per loro, lo desidero con tutto me stesso, perché siamo tutti figli tuoi. Non posso vivere senza di loro, non avrebbe senso e non è possibile: sarebbero tutti morti e questo non è quello che tu vuoi per tutti noi. Per questo ti amo con ogni fibra del mio essere, perché ci ami con tutto te stesso. Come ami te di un amore unico, se posso esprimermi a riguardo della tua esistenza misteriosa, tu ami anche noi del medesimo amore che si dona completamente. Io amo i miei fratelli come amo me, perché tu ami me e loro con tutto te stesso, da te ho imparato questo amore che ci avvolge e ci fa vivere. Amore misterioso come ogni amore, che si mostra nascondendosi nell'umile farsi avanti nella relazione con l'altro, con passione e con delicatezza allo stesso tempo, così che tutti possano trovare la pienezza della propria vita: tu come Signore e noi come uomini.
Salvare la vita
«Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà» (Mc 8,35).
Gesù ha appena annunciato ai suoi discepoli il proprio destino pasquale di passione, morte e resurrezione. Pietro gli si è opposto, ricevendo parole durissime: «Vai dietro di me, satana, perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mc 8,33).
Gesù è consapevole di ciò che lo attende a Gerusalemme, lo vuole affrontare e non si vuole sottrarre, perché ha compreso che la sua vita è al servizio dei fratelli che ama come se stesso. Egli sa che se se si sottraesse a ciò che lo aspetta a Gerusalemme, perderebbe la propria vita e non la salverebbe dalla vera morte: il non amare i fratelli con tutto se stesso.
Gesù associa a sé coloro ai quali si rivolge, la folla con i discepoli: «ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,35) per farli entrare nella relazione con il Padre, relazione che per Gesù è vitale. Egli sa oramai che se l'uomo guadagnasse il mondo intero, ma perdesse il senso della propria vita, che cosa gli rimarrebbe in mano da poter scambiare con chiunque, in primis suo Padre (cfr. Mc 8,36-37)?
Egli sa che in questo non c'è alcuna differenza tra lui e noi, se non nella consapevolezza senza dubbi di questa verità. Egli ci invita a seguirlo a Gerusalemme con la nostra croce, non con la sua, sapendo che essa è diversa per ciascuno di noi e che ciascuno deve riconoscerla nella propria vita. Questa croce si produce se siamo fedeli a Gesù e al Vangelo, è legata a lui e all'annuncio dell'amore di Dio, non è una qualunque sofferenza, ma è la reazione degli uomini che non vogliono convertirsi dal proprio peccato.
Padre, in quale mistero di vita e di morte mi hai coinvolto? Perdere la vita per poterla trovare è un paradosso che si scioglie solo vivendolo fino in fondo avendo fiducia in te, che ti mostri affidabile nel tuo amore per ciascuno di noi. Io comprendo questo, ma i miei fratelli lo sapranno comprendere, sapranno vivere questo paradosso? Pietro non comprende ancora, ma quando tutto sarà compiuto, lo comprenderà? Ho fiducia in lui e ho fiducia nel tuo Spirito che li aiuterà a vivere quando io non sarò più con loro perché la mia missione si concluderà a Gerusalemme con la mia morte e resurrezione. Tu mi salverai dalla morte, per questo posso perdere la mia vita. Ti ringrazio per questo dono certo che ora vivo nella speranza che si compia, ma che diventerà verità viva dopo la resurrezione, speranza per ciascuno che vi si vorrà affidare.
Le parabole del regno di Dio
La dinamica del regno di Dio presente nella storia, come realtà che nasce in piccolezza e che si manifesterà in pienezza solo alla fine dei tempi, è un mistero che Gesù ci svela perché consapevole di quanto sta accadendo alla sua predicazione.
Gesù conosce il cuore degli uomini indurito dal peccato, ma desideroso di trovare la vita. Per questo usa le parabole: per risvegliare il desiderio di vita vera soffocato dagli affanni del mondo (il seminatore e i quattro terreni) non può fare altro che farci entrare in un racconto che ci intriga per sorprenderci nei nostri pensieri abituali e po' stantii e aprirci così alla novità di Dio che si fa presente nella storia.
Le parabole ci affascinano perché ci coinvolgono nel profondo e ci rivelano Dio.
Gesù stesso ha dovuto compiere questo cammino di conoscenza di Dio per potercene parlare in modo così originale, non con argomenti logici e riflessivi, ma mostrandoci i vari aspetti del regno di Dio con racconti che ci spingono a prendere una decisione per entrare nel regno di Dio, nel suo amore per gli uomini.
Il regno c'è, Dio lo ha già stabilito, a noi è offerta la opportunità di entrarci con la gioia e la fiducia che in esso possiamo trovare la vera vita.
Gesù ci ha preceduto in questo percorso di conoscenza ed esperienza del regno di Dio e per questo ci vuole aiutare con le parabole a compiere il suo stesso cammino.
Per Gesù il regno di Dio è davvero il campo del mondo che accoglie o meno, e per vari motivi, il seme della parola (Mc 4,1-20).
Gesù è consapevole che il regno cresce per sua propria forza, che è l'amore di Dio per gli uomini e le donne di tutti i tempi, e che troverà il compimento alla fine dei tempi (Mc 4,26-29), quando il bene sarà separato dal male (Mt 13,24).
Egli sa che si può trovare rifugio all'ombra del regno di Dio (Mc 4,30-32).
Gesù ha visto che l'amore di Dio è come il lievito che fa lievitare la vita degli uomini (Mt 13,33).
Per lui stesso il regno è stato come trovare un tesoro nascosto per cui vendere tutto per acquistarlo (Mt 13,44-46).
Gesù riprende ancora una volta la metafora della rete da pesca per parlare del giudizio finale (Mt 13,47-50), perché sa che il Padre farà la differenza tra chi ha vissuto secondo la sua volontà con amore verso i fratelli e chi invece ha fatto il contrario. Dio infatti non è indifferente al bene e al male e anche se durante la storia lascia a ciascuno la possibilità di un tempo per la conversione – e quindi non punisce immediatamente il male compiuto –, tuttavia ci sarà un momento in cui ciascuno di noi dovrà rendere conto di tutto ciò che ha fatto, nel bene come nel male.