Pensare_lItalia

L'Europa agonizza perché l'auspicato superamen­to delle sovranità nazionali - e voglio ricordare che sovranità nazionale significa anche la specificità del­la classe politica di ogni singolo Paese e della sua legittimazione democratica - si sta rivelando nei fatti piú che mai impossibile. Oltre a ciò c'è un elemento per noi ancora piú grave, e cioè che all'interno della costruzione europea abbiamo un peso sempre mino­re. La decisione tutta ideologica dei progressivi, in­consulti, allargamenti ha sempre piú marginalizzato l'Italia, che attualmente conta nell'Unione meno della Polonia, con tutto il rispetto per un Paese che mi è carissimo. Aggiungi a ciò la perdita considerevole di rilievo geo-politico che ha subito la Penisola a causa della fine della guerra fredda. Di fatto si sta deline­ando nel Continente un condominio franco-tedesco all'ombra di un crescente condizionamento neoimpe­riale della Russia. Ammesso che l'Unione europea re­sti in piedi, io credo che la nostra parte - a meno che non si verifichi uno scatto di reni decisissimo, ma al momento del tutto inimmaginabile - sarà inevitabil­mente quella di un'Italiuccia cosmopolita e xenofila quanto vuoi ma che annaspa sotto amministrazio­ne controllata.
Non solo, ma sul futuro italiano si staglia in pro­spettiva l'ombra inquietante di un altro fenomeno ancora. Si tratta della grande redistribuzione che sta avvenendo del potere economico e politico tra le grandi aree geo-politiche del pianeta. L'ascesa di Ci­na, India, Brasile non fa altro che diminuire la quo­ta di ricchezza a disposizione delle vecchie centrali di egemonia mondiale quali l'Europa e gli Stati Uni­ti. Quindi ci sarà sempre meno da scialare anche per l'Unione europea, e di conseguenza anche per noi. In una competizione globale che si profila sempre piú come una competizione tra giganti la nostra an­tica vocazione economica al «piccolo», all'industria familiare o giù di lì, minaccia di rivelarsi un handi­cap mortale.

Certo possiamo sempre consolarci spe­rando nella qualità dei nostri prodotti e nei consumi di nicchia. Ma quanto si potrà andare lontano con la qualità e con la nicchia?

Parto dalle possibili prospettive, attualissime mentre il governo Monti sta ottenendo la fiducia in Parlamento, per invogliare il possibile lettore a capire perché si arriva a questo punto.

Il libro si inserisce nella mia ricerca sul carattere degli italiani e il loro rapporto con una coscienza civile che tende a manifestarsi solo nei momenti di crisi, come quella attuale (oggi, 16 novembre 2011, Mario Monti ha sciolto la sua riserva per la formazione del nuovo governo dopo l'epoca berlusconiana con tre inserzioni: Dini, e due volte Prodi).

Devo confessare che Galli della Loggia non mi è mai stato molto simpatico e leggendo questo libro mi confermo nel mio convincimento. Devo però ammettere che la sua ruvidezza nel trattare i problemi della nostra Italia ha qualcosa di utile perché spinge alla riflessione e a prendere in considerazione angolature non usuali per leggere la storia, il presente e i fatti sociali, per certi versi dà più profondità del suo interlocutore - Schiavone - con cui mi sento più in sintonia a pelle. Tant'è...

Trovate qui l'indice e la brevissima premessa scritta dai due autori che riconoscono con sincerità le loro diversità culturali, politiche e di carattere che animano il loro discorrere mai banale sull'Italia, la sua storia, il suo carattere  e il possibile futuro.

Se si può sintetizzare un dialogo così ricco, mi pare si possa dire che i 150 anni dell'Italia unita siano stati caratterizzati dai ritardi del suo sviluppo prima sociale e poi economico nei confronti di quanto accadeva prima di tutto in Europa e poi nel mondo.

Da piccolo paese al margine dei grandi stati e imperi dell'Ottocento (Inghilterra, che allora dominava il mondo, Francia post napoleonica, Germania che stava diventando un impero e Impero Austro-ungarico) ci siamo voluti imporre un'unità colta come un guadagno inaspettato da Cavour per giungere a Giolitti, all'avventura fascista, alla ricostruzione del dopoguerra, al boom economico che ci ha lanciati nelle prime potenze economiche del mondo (tra gli sconfitti assieme a Germania e Giappone) nel G7 ora G20, che dice già la nostra minore influenza e il possibile declino, se non si riusciremo a mettere a frutto il genio italiano, individualista e capace di invenzione, al servizio dell'Italia invece che del proprio personale guadagno, come abbiamo visto in questo modello berlusconiano, tutto italiano e per niente europeo o mondiale.

Anche il fatto della nostra struttura produttiva fatta da circa 4.000 medie imprese, anche di punta nella propria nicchia, ma pochi grandi campioni (solo la FIAT produce beni, gli altri servizi: ENEL, ENI, UNICREDIT, Banca intesa), la dice lunga sul nostro metterci insieme. Si potrebbe caratterizzare la nostra indole così: meglio soli, ma padroni, che insieme e in una società (per azioni o di altro tipo).

I due autori riconoscono questa, con una pù articolata riflessione, come la basa da cui partire, il dato ineludibile se vogliamo pensare al nostro possibile futuro.  

In questi giorni in ufficio ho appeso un cartello così concepito

NELLA CATASTROFE C'E' LA SALVEZZA

riprendendo le riflessioni di padre Pino Stancari mentre legge il libro di Isaia (http://www.indes.info/lectiodivina/2004-05_Isaia/). I molti che sono passati e lo hanno letto, hanno avuto reazioni diverse che vi lascio immaginare. A voi pensare alla vostra reazione...

Di seguito alcuni brani significativi per aiutarci a riflettere e a compiere un discernimento più accorto su ciò che ci è data come occasione per non declinare.

 

Un primo punto significativo è di guadagno di intelligenza, almeno per me,

 è quello della iperpoliticizzazione dello Stato italiano.

Riporto alcune pagine del libro per far intuire quello che Galli della Loggia vuole dire con questo strano vocabolo. 

In verde aggiungo qua e là commenti miei che riguardano riflessioni sull'attualità.

 

GdL. Già, lo Stato. Forse il centro più cruciale di tutta la lunga storia italiana e della sua attualità politica. Al fondo la società italiana è rimasta sempre ideologicamente e - direi qualcosa di più - emotivamente estranea, se non addirittura ostile nei confronti dello Stato, della dimensione della statualità.

La quale, in un certo senso, da noi si trova come assediata e, dunque, in continua e fortissima difficoltà rispetto alle tensioni sociali di qualunque tipo. Nella storia dell'Italia unita ci sono state dosi massicce di statalismo, ma di statualità, di cultura e di senso dello Stato cioè, se ne è vista ben poca.

E’ un dato originario della nostra storia su cui hanno pesato l'eterogeneità del fronte risorgimentale, diviso tra liberal-costituzionali e democratico-rivoluzionari, e gli incessanti fremiti di rivolta che, a partire dal 1861 nel Mezzogiorno, hanno percorso a lungo il corpo del Paese. La risposta a tutto ciò è stata una iperpoliticizzazione della sfera pubblica e statale, una sua «blindatura» politica espressa nell'uso massiccio della delegittimazione dell'avversario e nella mancanza di alternanza al governo di schieramenti contrapposti.

Tutta la prima fase della vita dello Stato unitario è stata caratterizzata da una certa chiusura autoritaria delle classi dirigenti a cui corrispondeva però la presenza di un fattore determinante: cioè il ribellismo a sfondo anarcoide delle masse italiane. E’ piuttosto con queste espressioni o con altre simili che definirei quelle che tu, con un ottimismo che a me sembra eccessivo, chiami lotta di popolo o conflitti di classe. I conflitti espressi dalle masse di cui sopra non erano quasi mai tensioni inerenti alla modernità. Erano più spesso reazioni di tipo luddistico frutto del contatto di masse arcaiche con i primi, duri elementi della trasformazione capitalistica. Non sto dicendo che si trattava di reazioni ingiustificate: dico solo che oggi a noi quelle reazioni possono anche apparire giustificate, ma che però le loro forme pratiche e psicologiche potevano difficilmente sciogliersi entro una qualunque moderna composizione del conflitto sociale.

Non dobbiamo mai dimenticare che la mobilitazione politica di massa italiana è stata a lungo, per antonomasia, una mobilitazione contadino-bracciantile, e questo ha caratteristiche assolutamente peculiari improntate, in genere, a una forte carica di violenza, facile a innescarsi e altrettanto rapidamente a esaurirsi. Molto diversa è la mobilitazione sindacale e politica operaia. Da questo punto di vista è significativo che, esclusi i fatti di Milano del 1898, la repressione antipopolare in Italia abbia preso sempre le forme di uno scontro con le masse contadine. [...]

 GdL. Un deficit di cultura politica moderna che apparentemente contrasta, ma in realtà è tutt’uno, con quello che a me sembra il lungo filo rosso che percorre centocinquant’anni di storia italiana. E cioè con lo spazio e con l’enfasi assolutamente fuori misura che nella Penisola sono arrisi alla dimensione politica, con l’iperpoliticismo italiano, come l’ho chiamato altre volte. E’ stato forse questo il maggior retaggio del Risorgimento. Il successo quasi miracoloso di questo, infatti, non fu determinato certo da alcuna fulgida vittoria militare, da alcuna irresistibile sollevazione di popolo, da alcuna vasta capacità cospiratoria. Fu soprattutto se non solo frutto della politica. Della straordinaria abilità di un’altissima mente politica come quella del conte di Cavour, il quale riuscì a combinare insieme una molteplicità di fattori eterogenei facendoli convergere verso un unico obiettivo. Ne è restata un’impronta indelebile nell’organismo italiano. L’idea cioè che grazie agli stratagemmi, all’arte della combinazione, ai compromessi, si possano ottenere risultati di gran  lunga superiori a quelli contenuti nei dati di partenza. A un libello più basso, è rimasta una fiducia infondata nelle virtù miracolose dell’intuito, del «fiuto», della dissimulazione, del doppio gioco. Pietanze, come si sa, di cui la tavola politica italiana è sempre stata riccamente imbandita.

In uno Stato, nato grazie assai più alla politica che alla virtù delle armi, nonché alle prese con una società povera, fatalmente la politica ha finito per svolgere un ruolo preponderante. Tanto più nel XX secolo, un secolo che ha assistito a una vera e propria esplosione del politico, a una sua straordinaria capacità generatrice. Un secolo in cui il politico ha prodotto forme storiche, mediazioni, culture, in misura assolutamente impensabile e impossibile in tutte le epoche precedenti. 

AS. Trovo questa tua idea dell’«iperpoliticismo» come elemento caratterizzante della storia d’Italia dal risorgimento in poi un’intuizione felice. A condizione però che si riesca a contestualizzare in modo corretto questa nostra specie di sovradeterminazione politica, sia rispetto all’Europa, sia alle stesse vicende italiane. [...] Vengo ora all'aspetto più propriamente italiano. Da noi questo primato della politica - «iperpoliticismo» come tu dici - mi sembra abbia preso due direzioni specifiche, tra loro molto diverse.

- Da un  lato ha contribuito a formare la convinzione, condivisa ai due estremi del nostro laboratorio novecentesco, quello fascista e quello comunista, che un surplus di decisionismo (rivoluzionario) potesse determinare un'accellerazione provvidenziale, una specie di positivo corto circuito, nel cammino altrimenti troppo lento e impacciato della modernizzazione del Paese. Che, insomma, solo un'ipertrofia del comando politico potesse riscattarci dalla nostra arretratezza, e salvarci dai nostri eterni mali - una tendenza che l'esperienza comunista avrebbe poi trasmesso all'Italia repubblicana.

- Dall'altro - e su un altro piano - quel medesimo «eccesso di politica» è stato alla base di quell'ipertatticismo (se posso usare il tuo modello lessicale), che ha caratterizzato la vita del nostro «sistema dei partiti» soprattutto nella sua ultima fase, diciamo dagli anni Settanta in poi: la DC e il Psi ne sono stati due convinti protagonnisti. Craxi, ma anche personaggi come Fanfani, Cossiga, Andreotti, per esempio, ne erano completamente dominati. (mio commento: anche Berlusconi e i suoi "falchi")

GdL. Quanto tu dici dell'importanza assunta dalla politica nell'età contemporanea è giusto, ma rischia di occultare la specificità italiana. La quale, a mio avviso, non consiste, però, solo nell'essere stata l'Italia terreno di coltura elettivo del fascismo e del comunismo, cioè di due culture dal pronunciatissimo decisionismo politico; e neppure nell'ipertatticismo dominante dagli anni Settanta in poi, risvolto obbligato dell'iperpoliticismo di cui sopra nella sua fase partitocratica.

A mio avviso il fatto peculiare è che se in altri paesi nell'Otto-Novecento la politica è stata importante, da noi essa ha assunto più o meno stabilmente un carattere di centralità onnipotente: e questo è accaduto più o meno in tutti i regimi che si sono succeduti dal 1861 in avanti. E' diventato un tratto decisivo della nostra sfera pubblica, a causa di un secondo tratto specifico nostro: e cioè la debolezza congenita e permanente della società civile, unita però ad una sua feroce vitalità corporativa, tesa alla difesa delle posizioni di potere, per l'appunto grazie al massiccio e diffusissimo ricorso alla protezione politica. (mio commento: credo che nessuno sia immune, anche il più povero degli italiani, da questa mentalità che ci pervade, un esame di coscienza e una conversione civile ci sarebbero di aiuto per il futuro del paese. In fondo la stagione dei ruggenti anni '90 è stato il trionfo pubblico di questo vizio privato).

[...]

Il fascismo, lungi dal rappresentare una frattura vera del discorso politico italiano, fa(ccia) parte pienamente, viceversa, di quel politicismo populistico-rivoluzionario che nel Novecento ne è stato una componente così importante. Nel caso dell'Italia quest'afflato populistico-rivoluzionario, originato dalla volontà comune a tutte le nostre culture politiche (nazionalisti, fascisti, socialisti, cattolici, comunisti, azionisti) di sanare le insufficneze del Risorgimento, portando finalmente le «masse nello Stato», quest'afflato, dicevo, ha rappresentato il vero surrogato di quel pensiero democratico moderno che in Italia non c'è mai stato in misura significativa.

AS. Non vedo perché riconoscere il peso determinante dello scontro di classe nell'avvento del fascismo debba implicare il rifiuto del modello interpretativo fondato sull'«iperpoliticismo» italiano, o per meglio dire, sulla variante italiana dell'«iperpoliticismo» europeo. A me pare invece che le due letture siano sostanzialmente convergenti: la fuoriuscita della lotta di classe dalla legalità costituzionale esaltava un'opposta ma simmetrica concezione del primato della politica - anche nel senso del primato della politica (rivoluzionaria) sulla legalità. (mio commento: se ne sono visti gli esiti nella stagione del terrorismo e nelle forme di violenza che ancora recentemente hanno fatto luce nelle piazze e, soprattutto, nelle periferie qui di Roma. Che le organizzazioni malavitose ne siano una notevole espressione pratica? a voi la risposta).

 

Riporto ora alcuni brani dal quarto capitolo del libro "Antropologia italiana".

 AS. Tu hai scritto altrove di una distinzione, che ri­tengo importante, tra «nazione» e «patria». Ebbene, se assumiamo il punto di vista delle élite culturali del Paese, a me pare che l'esistenza di un'identità italia­na, di un nostro carattere comune, specifico e condi­viso, sia preesistita per un lunghissimo periodo alla formazione di uno Stato nazionale. [...]

In primo luogo un'antica dissociazione

 - fra civiltà (artistica, filosofica, giuridica, scientifico-tecnica, di gusto, di stili di vita) e potenza (politico-militare).

- Fra ricchezza privata e virtú pubblica;

- fra ragione civile e forza politica:

una scissione che almeno dal Trecen­to ha segnato tutto il nostro cammino.

L'irresistibile pluralismo cittadino e regionale dell'Italia rese pos­sibile il Rinascimento e insieme uno sviluppo econo­mico senza precedenti (qualcuno ha persino scritto, esagerando, che avremmo sfiorato un'autentica rivo­luzione industriale), ma non consenti - lo abbiamo visto - la formazione di una massa critica in grado di congiungere quantità e spazi indispensabili alla nascita di un grande Stato territoriale, come quelli che si stavano costruendo in Europa. Né avemmo il tempo di sperimentare soluzioni diverse e piú adat­te a noi: il «sistema Italia» messo in piedi nel corso del Quattrocento si rivelò alla prova dei fatti politi­camente fragilissimo, e fu spazzato via, malgrado gli splendori della sua vita civile e le performances del­la sua economia. Questa contraddizione - primi, ma indifesi - ci è restata da allora conficcata dentro. La tensione fra comunità locali e identità italiana, che avrebbe potuto risolversi nell'invenzione di una via originale all'integrazione, si esaurí invece in un accen­tuarsi delle lacerazioni.

La Controriforma fu la gui­da del nostro declino. Nel cuore del Cinquecento, al posto di una coscienza nazionale che non riusciva a formarsi (senza Stato, niente nazione), come comin­ciava ad accadere in Francia, in Spagna, in Inghilter­ra, fummo investiti dall'onda di una normalizzazione religiosa che non lasciava respiro. Diventammo il terreno privilegiato di una grande offensiva cattolica, invece di essere il laboratorio di una nuova statualità (avremmo potuto pur diventarlo, in termini cultura­li). La Chiesa, del resto, aveva avuto da sempre una presenza in Italia con tratti del tutto specifici rispet­to al resto della storia europea. Una peculiarità cosí marcata aveva già prodotto esiti di rilievo dal punto di vista del senso comune, delle mentalità collettive, della vita sociale. Mettemmo definitivamente la par­rocchia al posto dello Stato: e questo stabilì rappor­ti di forza dal cui raggio non siamo più venuti fuori, nemmeno in centocinquant'anni di storia unitaria. [...]

Se ne distinguono perfettamente i tratti:

- il prevalere, in ogni giudizio, dell'intenzione sulla responsabilità;

- la sensibilità per l'ombra, per l'oscurità irrimediabile della materia umana;

- la propensione rassicurante per la continuità, e l'orrore del salto e del cambiamento;

- una percezione ambivalente del potere: cui conviene adattarsi, perché nell'assecondarlo c'è comunque un principio di salvezza, ma ritagliandosi una propria personale misura di disobbedienza, combinata con l'ostilità verso le regole generali e l'uniformità delle leggi;

- la percezione dello Stato (spesso lontano e stra­niero, o controllato da stranieri) come di un possibile nemico, del quale diffidare sempre;

- l'attitudine alla sopportazione e alla pazienza;

- la duttilità di piegarsi, per non spezzarsi mai;

- una rappresentazione autosufficiente e molecolare di sé, chiusa nella dimensione privata o al massimo nella cerchia familiare (nulla a che vedere né con l'individualismo aristocratico anti­co, né con quello protestante e borghese della nuova Europa).

Non dico che sia il nostro ritratto, oggi: ma si avvicina molto alla nostra radiografia.

GdL. Ascoltandoti mi veniva da pensare: ec­co una peculiarità italiana. Di qualunque aspetto del nostro Paese si parli si salta subito alla storia, alla fine alla politica; e naturalmente alla Chiesa. Il nostro di­scorso pubblico, insomma, sembra sempre fermo lì: a Machiavelli e a De Sanctis. Per carità, non voglio dire che non ci siano per ciò delle buone ragioni ma allora, discorso storico per discorso storico, ti dirò che - an­che sulla base di un minimo di comparazione con altri due Paesi ultracattolici come Spagna e Austria - a me, per spiegare certi nostri caratteri, sembra piú convin­cente il discorso sull'assenza di assolutismo che quel­lo sulla presenza della Controriforma. Ci è mancato soprattutto lo Stato, la monarchia assoluta di ambito nazionale. E questa partita era già abbondantemente persa all'inizio del Cinquecento, prima di qualunque Controriforma. La Controriforma ha potuto dispie­gare i suoi effetti proprio a causa di questo vuoto. Il suo disciplinamento sociale è stato un surrogato del mancato disciplinamento altrove esercitato dallo Stato monarchico, che da noi invece non c'era. La Chiesa ha riempito un vuoto, non l'ha creato. (vedere l'analisi di CArlo Tullio Altan, in: Gli italiani in Europa, sempre in questo sito e in questa sezione http://www.ilcristo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=16%3Ala-coscienza-civile-degli-italiani&catid=7%3Agli-italiani-e-la-loro-storia&Itemid=23&lang=it)

Mi chiedo poi se invece di un'antropologia italiana ne esistano per caso almeno tre o quattro, a seconda delle varie aree geografiche della Penisola. Più che mai siamo obbligati a farci questa domanda perché natu­ralmente l'antropologia che interessa soprattutto al nostro discorso è quella che ha a che fare con ciò che di solito si chiama «cultura civica». Soprattutto da questo punto di vista, allora, è difficile non conside­rare le ovvie, conosciutissime, differenze non solo fra Italia settentrionale e Italia meridionale, ma anche la forte peculiarità del Centro, le non piccole diversità tra Nord-est e Nord-ovest e, infine, alcuni caratteri specifici delle insularità sarda e siciliana.

Fino a oggi siamo stati convinti che comunque queste diversità si fossero alla fine coagulate in un carattere nazionale degli italiani, ma ammettendo che ciò sia vero in realtà non è mai stato studiato in quale misura le diverse parti del Paese abbiano contribuito a questo risultato finale. Se, per esempio, quello che oggi siamo portati a considerare il carattere italiano non risenta in misura determinante del contributo so­prattutto dell'antropologia centro-meridionale. An­che perché ho l'impressione che il profilo di questo carattere nazionale, legato intimamente all'immagi­ne che gli italiani danno abitualmente di loro stessi, sia, in parte assai significativa, una costruzione degli stranieri. O per meglio dire degli abitanti dell'Europa centro-settentrionale, della moderna, industrializzata, Europa urbano-protestante. Lo sguardo della quale è stato particolarmente colpito, da sempre, dall'antro­pologia degli italiani del Centro-sud, cioè di quella che era la più distante da loro. [...]

Naturalmente le cose non stanno affatto cosí: è bizzarro ma pur necessario essere costretti a dirlo per l'ennesima volta. La storia, l'assenza di una si­gnificativa tradizione comunale, il regime della pro­prietà fondiaria, il tasso di analfabetismo, la qualità dei rapporti con i mercati stranieri, la resa dei terreni agricoli, l'estensione della rete ferroviaria e stradale, ogni cosa al momento dell'Unità rendeva la situazione del Mezzogiorno d'Italia drammaticamente diversa e deficitaria rispetto a quella dell'Italia settentrionale.

Avendo mente a questo divario credo che sia diffi­cile non riconoscere lo straordinario successo che alla fine è arriso all'Unità italiana. Non da ultimo per il fatto che dopo un secolo e mezzo ne è nato un com­plessivo carattere italiano dove l'apporto antropolo­gico meridionale si rivela fortissimo, in certo senso più forte di quello centro-settentrionale. [...]

Piú che parlare genericamente di sto­rica debolezza della società civile meridionale io par­lerei di una sua forte propensione all'illegalità e, in certi casi e in certi strati sociali, alla violenza. Fatto­ri entrambi che vanno ricondotti alla debolezza che nell'Italia meridionale ha storicamente caratterizza­to il potere centrale, incapace di far rispettare il pro­prio comando con un appropriato uso della forza. La forza e il suo uso sono cosí rimasti tradizionalmente nelle mani dei privati, al servizio dei loro interessi. Un tempo i signori feudali, poi i proprietari latifon­disti, oggi la mafia e la 'ndrangheta. Per la camorra, invece, si deve pensare a un'origine peculiarmente urbana, di disgregazione urbana. [...]

Come tu hai ricordato, un elemento davvero nuovo alla discussione che stiamo facendo sul carattere nazio­nale lo ha portato di recente il libro di Roberto Espo­sito (non ho trovato il libro cui si riferisce).  Perché in quelle pagine a essere tipizzata in senso nazionale non è piú una presunta antropologia dagli in­certi contorni, bensí una linea di pensiero storico-poli­tico, un pensiero «italiano», fondato sulla triade vita­-storia-politica che da Dante arriverebbe fino ai giorni nostri. Dico subito che a me è parsa una ricostruzione acuta e felicissima del mainstrearn ideologico del nostro Paese. Aggiungo immediatamente però che, a dispetto dell'autore - che sembrerebbe ipotizzare su questa base una posizione all'avanguardia per l'Italia -, io, invece, l'ho trovata una spiegazione convincente delle manche­volezze, dei vuoti e dei ritardi che affliggono tanto la compagine statale quanto la stessa società italiana (e vorrei dire pure l'individuo italiano).

Proprio stando a quello che dice Esposito, infat­ti, nella vicenda del Paese, nelle sue viscere, c'è da sempre troppa irrequietudine vitale, troppa storia, storia sempre di conflitti, di fazioni, troppa politica insomma, e, viceversa, poco Stato, poca capacità di darsi forme regolate e stabili di vita collettiva in gran­di dimensioni, di produrre un'organizzazione sociale complessiva al servizio dei piú. Del pari, nel pensie­ro italiano non c'è l'individuo razionale di Cartesio, l'uomo morale astratto di Kant. Il risultato combi­nato di tutto ciò, a me pare - e qui vado molto oltre il libro di cui sto dicendo, il quale non arriva certo a queste conclusioni -, è che nella nostra realtà storica non ha messo radici l'individualismo moderno, quello del diritto eguale. In essa è rimasto, invece, con tutta la sua forza un individualismo antico, quello che trae origine dal particolarismo familistico, dalla separatez­za autoreferenziale del clan, della cerchia dei clientes , dell'universo del vicolo napoletano e della contrada senese, alla fine irresistibilmente spinto a declinarsi nelle forme anarchiche che sappiamo.

La debolezza della costruzione statal-nazionale ha allargato e rafforzato ancor piú l'ambito dell'indivi­duo, il che a sua volta ha però voluto dire, nel piú classico dei circoli viziosi, un'ulteriore debolezza dello stato nazionale. Naturalmente ci sono stati anche alcu­ni effetti positivi.

- Ad esempio se oggi siamo un Paese di piccole e medie imprese è anche, probabilmente, perché in Italia i rapporti familiari sono tuttora fortis­simi.

- Cosí come - azzardo un'ipotesi - se fino a oggi siamo stati un Paese con un forte tasso di risparmio è forse anche a causa della forza che ha conservato a lungo il modello di vita di tipo familiare, con rela­tiva, ovvia riduzione delle spese per i suoi membri.

Tagliando le cose con l'accetta, insomma, direi che da noi domina tuttora una struttura antropologica con una forte matrice urbano-familiare, a sfondo individua­listico patologico, mai riuscita a diventare nazional­individuale in senso moderno. Quando dico nazio­ne, infatti, intendo appunto le norme e le istituzioni che presuppongono come costante controparte l'in­dividuo. Non bisogna mai dimenticare, infatti, che è stata soprattutto la nazione con la sua ideologia universalistica a liberare l'individuo dai legami pre­cedenti, familiari e corporativi, e a collocarlo anche politicamente al centro della scena. [...]

AS. Nell'antichità, Roma aveva spostato tutto dal lato delle forme e del potere: il diritto, le armi, la tenuta «mondiale» della Repubblica. Ma sbarra­ta ormai per noi quella strada già una volta percorsa fino in fondo, l'Umanesimo italiano la rovescia nel suo contrario, spostandola per intero dal lato della vita: non certo una vita senza forme (questo sarebbe inconcepibile), ma piuttosto il primato della (nuova) vita che riduce a sé le forme, invece di separarle e la­sciarsene dominare, che usa il classico come veicolo di contenuti culturali e sociali fino ad allora sconosciuti. Su questo mondo tumultuoso e febbrile, ma politica­mente condannato all'inconcludenza, calarono insie­me la Controriforma e una lunghissima regressione economica. Il risultato è stato quello che noi siamo: o meglio, quello che noi eravamo fino a non molto tempo fa, e che in qualche modo continua a rimane­re dentro di noi. Un Paese senza società civile, senza rivoluzione capitalistica, con un popolo prigioniero di una dimensione solo privata delle soggettività in­dividuali, ma con inscritta nella propria memoria sto­rica la traccia di una scoperta e di una rivelazione: la prima invenzione del moderno. [...]

GdL. Esito a dirlo in questa forma cosí recisa, ma mi viene da pensare che la modernità sia qualche cosa che al suo fondo si oppone in modo sot­tile ma reale e profondo al carattere italiano.

Quella che tu hai definito la plasticità rappresen­ta di sicuro un dato storico di estrema importanza, perché sta forse proprio in essa la ragione principale per cui l'Italia non è stata mai cancellata dalla scena del mondo. Grazie proprio alla plasticità degli italia­ni l'Italia può sopportare la crisi piú profonda delle sue istituzioni, la debellatio del suo Stato, ma alla fi­ne ritorna sempre a galla, alla fine gli italiani riescono sempre a ricostituire una qualche forma di presenza collettiva sulla scena del mondo. Probabilmente pro­prio perché in loro c'è una forma di vitalità estrema, che però fa a pugni con il disciplinamento necessa­rio, ingrediente inevitabile proprio della modernità dispiegata.

[...]

AS. Non direi però che abbiamo un rapporto ambiguo con la modernità, né che essa si opponga (tu dici: in modo sottile ma reale) al carattere degli italiani. Ca­pisco il senso della tua osservazione, ma vi trovo un che di eccessivo e come di fuori misura: mi sembra vero piuttosto che, dopo un inseguimento tanto lun­go e tormentato, non abbiamo ancora elaborato sino in fondo il raggiungimento del nostro traguardo (per ripetere la bellissima frase di De Sanctis che tu giu­stamente ricordavi: «fare il mondo moderno il mon­do nostro»); fuori sporge ancora qualcosa: non un grumo premoderno; piuttosto una serie di difese e di resistenze di fronte a un ciclo di trasformazioni trop­po veloce, che ci ha fatto cambiar pelle due volte, in meno di quarant'anni, e in qualche caso ci ha addi­rittura sbalzato da una realtà quasi ancora agricola e contadina a una pienamente postindustriale.

GdL. In un modo che alle mie orecchie suona molto politico, tu tendi sempre a prospettare le cose in termini diciamo cosí ottimistico-evolutivi - «siamo rimasti piú indietro», «c'è ancora molto da lavorare». Ma cosí ti impedisci di vedere, secondo me, certi nuclei profondi e immodificabili delle cose. Anche l'he­geliano piú convinto dovrebbe rassegnarsi all'idea che forse c'è una realtà, sí anche una realtà sociale, capace di sfuggire alle acrobatiche trasformazioni, ai miraco­losi rovesciamenti dettati dalla dialettica. Quanto alla funzione pedagogica svolta o non svolta dalle classi di­rigenti italiane, io credo che si debba pensare, invece, all'assenza in genere di disciplinamento sociale, frutto dell'assenza storica di forti poteri politico-statali. Ri­torno sempre a questo punto, perché a mio giudizio è essenziale: la mancanza nella vicenda italiana della di­mensione dell'assolutismo.

Tranne il caso di Venezia e della monarchia sabauda, nella penisola abbiamo avu­to per moltissimo tempo poteri deboli, piccoli, lonta­ni, privi di grandi ambizioni geopolitiche, quindi non bisognosi di risorse finanziarie e umane da estrarre dai propri stati, e anche perciò inclini a un certo qual complessivo lassismo nei confronti dei propri sudditi. Poteri per giunta alle prese con una controparte reli­giosa costitutivamente antagonista, schierata a difesa in senso lato delle masse popolari di cui si considerava la naturale tutrice. Per tutto questo insieme di fattori queste masse hanno potuto sottrarsi per lungo tempo a quella penetrante azione normatrice, a quella serie di obblighi indeclinabili e a quella vincolante obbligazio­ne politica verso lo Stato che sono all'origine del senso civico diffuso in tanta parte dell'Europa. Assai piú che lo Stato a esercitare il proprio potere sulle masse popo­lari italiane, molto spesso sotto forma di angheria, fu il nobile, il proprietario terriero dalle caratteristiche piú o meno feudali in molte parti della penisola. In queste condizioni l'unico disciplinamento che hanno avuto le classi subalterne in Italia è stato quello di tipo etico-religioso imposto in modo particolarmente accentuato dalla Chiesa della Controriforma.

È da notare quindi che la stessa assenza di discipli­namento sopra detta a proposito delle classi popolari è valsa anche per le classi dirigenti italiane. Le quali, a causa sempre dell'assenza di un forte potere stata­le, hanno potuto prosperare in un sostanziale stato di anarchismo, cioè di esercizio arbitrario delle proprie prerogative e del proprio ruolo sociale.

Le cose hanno cominciato almeno in parte a cam­biare solo con la costituzione del Regno d'Italia. Ma a questo punto, a controbilanciare un tale cambia­mento sono intervenuti due elementi diversi anche se convergenti.

- Innanzitutto il fatto che l'Italia unita si è costituita con un ordinamento liberale. Il quale, checché se ne dica, tutelava in misura significativa la libertà dei singoli di qualunque estrazione sociale essi fossero, la sfera dei diritti individuali e della sogget­tività. Dunque, in questo caso, consentiva un disci­plinamento, sí, ma con limiti evidenti.

- Si aggiunga a ciò che fin dall'inizio il ruolo, o per meglio dire, il mancato ruolo del popolo nel processo risorgimenta­le, e poi nella vita dello Stato unitario, rappresentò una costante dell'autocoscienza nazionale.

L'obiettivo conseguente di «portare le masse nello Stato» diven­ne cosí, come abbiamo già detto, il leitmotiv di tutta la nostra vita pubblica e di tutte le culture politiche dell'Italia novecentesca. Ne è nato nei confronti del­le masse popolari, io credo, un atteggiamento diffuso per cosí dire di «attenzione», talvolta di vera e pro­pria idealizzazione ideologico-letteraria e, al dunque insomma, di pur cauta sollecitudine verso le stesse masse popolari che ha permeato la società italiana di un vasto e variegato sentimento populistico, assai lontano da qualunque volontà rigorosamente diretti­va e disciplinatrice.

Io vedo una relazione significativa tra questa assenza o debolezza del disciplinamento sociale, che si è storicamente esercitato verso le masse popolari ita­liane, da un lato, e, dall'altro, l'assenza o debolezza dello spirito civico del Paese. Lo spirito civico non può che nascere, mi pare, da un'organizzazione del potere pubblico-statale e da una sua gestione da parte delle classi dirigenti, capace di imporre capillarmente la propria autorità anche con i mezzi della coercizione piú dura. E questo in Italia è mancato. [...]

Invece vorrei tornare a un altro aspetto della Costituzione, del quale ho già detto, ma che mi sembra andare ben oltre il discorso specifico sulla Costituzione stessa. Il fatto cioè che dalla lettera e dallo spirito della Costi­tuzione italiana, quello della prima parte, un punto di vista conservatore (politico e non solo) esca vir­tualmente delegittimato.

Il che ripropone un piú generale problema della nostra storia unitaria sul quale da un po' di tempo non cesso di interrogarmi, anche se mi accorgo di essere in scarsissima compagnia. Il fatto cioè che in quella storia non ci sono veri conservatori e ideolo­gie realmente conservatrici. I motivi stanno eviden­temente nelle sue stesse origini e nelle caratteristiche rivoluzionarie del Risorgimento. E' difficile che uno Stato nato da una rivoluzione dia qualche spazio a personalità o culture politiche di tipo conservatore.

Ma questa spiegazione da sola non basta. Di sicuro, ad esempio, l'orientamento populista, che in questa conversazione abbiamo tanto spesso evocato - e che del resto è in qualche modo la logica prosecuzione delle caratteristiche rivoluzionarie di cui sopra -, ha pesato non poco.

Resta íl fatto comunque che l'assenza di una po­sizione conservatrice di qualche rilievo ha significa­to, ieri come oggi, un forte squilibrio nell'organismo politico, sociale e ideologico italiano. Un elemento di squilibrio nocivo, alla fine, anche alle forze di progres­so. Particolarmente nocivo alla modernità italiana, la cui costruzione - proprio per l'assenza di un elemen­to conservatore - ha prodotto effetti massimamente distruttivi. Se la nostra modernità non è riuscita ad avere nessun carattere proprio, specificamente ita­liano, se manca un qualunque aspetto di modernità italiana, ciò, io credo, si deve in buona parte alla sua difficoltà di legarsi concretamente a dei tratti pecu­liari del nostro passato: un passato, per l'appunto, non rappresentato o difeso da alcuna posizione con­servatrice attiva nel nostro Paese. Ma non si tratta solo del problema della modernità. Forse ancora più importante è il fatto che assenza di un consistente punto di vista conservatore ha voluto dire anche dif­ficile affermazione di una vera cultura degli interessi nazionali, scarso rilievo sociale e culturale di quelli che si chiamano «i grandi corpi» dello Stato, per lo­ro natura intrinseci a mentalità e a prassi orientate programmaticamente contro la rottura, l'innovazione di principio, il prevalere della decisione politica sia sulla norma che sulla consuetudine. Da noi invece, anche i magistrati vogliono essere araldi di qualche «rivoluzione». [...]

Prospettive

GdL. In generale non me la sentirei di con­dividere la tua alternativa molto secca tra l'Italiuccia ringhiosa e tutta racchiusa in se stessa e l'Italia co­raggiosa e globalizzante, legata all'Europa e aperta al mondo. Io sono incline a una visione meno polarizzata e, credo, piú pessimistica soprattutto perché non ho quella visione assolutamente positiva che invece tu hai dell'Europa. L'Unione europea mi sembra versa­re in una crisi non minore di quella italiana: bloccata nella sua evoluzione politica, ideologicamente pate­tica nella sua impotenza e nel suo informe buonismo, economicamente traballante, piú che mai alle prese con un fenomeno migratorio crescente ma che essa non sa in alcun modo come gestire.

L'Europa agonizza perché l'auspicato superamen­to delle sovranità nazionali - e voglio ricordare che sovranità nazionale significa anche la specificità del­la classe politica di ogni singolo Paese e della sua legittimazione democratica - si sta rivelando nei fatti piú che mai impossibile. Oltre a ciò c'è un elemento per noi ancora piú grave, e cioè che all'interno della costruzione europea abbiamo un peso sempre mino­re. La decisione tutta ideologica dei progressivi, in­consulti, allargamenti ha sempre piú marginalizzato l'Italia, che attualmente conta nell'Unione meno della Polonia, con tutto il rispetto per un Paese che mi è carissimo. Aggiungi a ciò la perdita considerevole di rilievo geo-politico che ha subito la Penisola a causa della fine della guerra fredda. Di fatto si sta deline­ando nel Continente un condominio franco-tedesco all'ombra di un crescente condizionamento neoimpe­riale della Russia. Ammesso che l'Unione europea re­sti in piedi, io credo che la nostra parte - a meno che non si verifichi uno scatto di reni decisissimo, ma al momento del tutto inimmaginabile - sarà inevitabil­mente quella di un'Italiuccia cosmopolita e xenofila quanto vuoi ma che annaspa sotto amministrazio­ne controllata.

Non solo, ma sul futuro italiano si staglia in pro­spettiva l'ombra inquietante di un altro fenomeno ancora. Si tratta della grande redistribuzione che sta avvenendo del potere economico e politico tra le grandi aree geo-politiche del pianeta. L'ascesa di Ci­na, India, Brasile non fa altro che diminuire la quo­ta di ricchezza a disposizione delle vecchie centrali di egemonia mondiale quali l'Europa e gli Stati Uni­ti. Quindi ci sarà sempre meno da scialare anche per l'Unione europea, e di conseguenza anche per noi. In una competizione globale che si profila sempre piú come una competizione tra giganti la nostra an­tica vocazione economica al «piccolo», all'industria familiare o giù di lì, minaccia di rivelarsi un handi­cap mortale

Certo possiamo sempre consolarci spe­rando nella qualità dei nostri prodotti e nei consumi di nicchia. Ma quanto si potrà andare lontano con la qualità e con la nicchia ?