Questa è la citazione a pagina 79 del mio libro
Gesù custode dell'uno e dell'altro, Edizioni appunti di viaggio, Roma 2021
Benjamin, J., Il riconoscimento reciproco. L'intersoggettività e il Terzo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019, pp. 60-67
Adattamento, co-creazione e riparazione
Illustrerò questa creazione di responsabilità condivisa in un caso di crollo nella complementarità, un'impasse prolungata in cui qualunque Terzo sembra distruggere la rigenerante unità.
Vignetta clinica: Aliza
Una paziente, che nei primi anni di analisi si è sentita compresa e al sicuro, comincia a spostarsi verso stati traumatici di timore che ogni equivoco - cioè qualsiasi interpretazione -sarebbe cosi maligna da farla ammalare e catapultarla in uno stato di angoscia e desolazione. Da bambina Aliza, una musicologa di successo, è fuggita dall'Europa orientale e ha subito una serie di catastrofi a cui la sua famiglia è stata quasi incapace di far fronte; tra queste rientra l'esperienza di essere stata lasciata da sua madre con parenti stranieri che parlavano a malapena la sua lingua. Dopo diversi anni trascorsi sul lettino, durante i quali Aliza mi sperimenta come profondamente contenitiva e musicalmente sintonizzata, una serie di disgrazie fa comparire ansie catastrofiche, e la mia presenza comincia a sembrare inaffidabile, pericolosa e persino tossica. Naturalmente qualsiasi analisi, man mana che va in profondità, esporrà ad aree di vergogna che vengono fronteggiate proiettivamente, porterà sulla scena i fallimenti e i traumi relazionali vissuti nelle fasi precoci, e quindi interromperà la sintonizzazione del Terza ritmico. Ma in questo caso, eventi esterni si sono aggiunti alla qualità spaventosa di queste rotture e hanno minacciato pesantemente il contenitore che abbiamo costruito insieme. Aliza ha più bisogno di me, ma in questo modo mi teme ancora di più: le sue esperienze di attaccamento disorganizzato si stanno riattualizzando facendo si che le mie mancate sintonizzazioni destabilizzino entrambe. E’ come se avessi semplicemente perso il punto, il nostro Terzo, che una volta mi guidava.
I miei sforzi di riflettere su questo cambiamento appaiono a Aliza come "giudizio", come la negazione della sua angoscia, come una pericolosa autoprotezione, come una fuga dalla colpa (finendo per respingere anziché contenere le sue proiezioni). La mia adesione al Terzo tradizionale, le regole dell'incontro analitico, comincia a sembrare (persino a me) un cattivo uso del ruolo professionale per distanziarmi dalle sue agonie e perdere umanità, facendo fuori dissociativamente la paziente dalla mia mente. Qualunque sforzo di spiegare questo terribile cambiamento, spesso quando Aliza me lo chiede urgentemente, può trasformarsi in un mezzo per incolpare lei, o in un'intellettualizzazione goffa che rompe la sintonizzazione sinfonica della nostra relazione iniziale (un esempio della spostamento dall'emisfero cerebrale destro all'emisfero cerebrale sinistro descritto da Schore, 2003). Questo problema è stato esacerbato perché Aliza ha spesso contrastato la sua vergogna cercando di dimostrare che può essere un'adulta che non ha subito traumi parlandomi con competenza del suo sé infantile traumatizzato, ma poi quel sé si sente arrabbiato ed escluso. Quello che è stato un Terzo soggettivamente utile ora sembra essere una dinamica costruita su una forma dissociativa o colpevolizzante di osservazione, piuttosto che sulla risonanza emotiva e sull'inclusione.
Comincio a essere sopraffatta dai classici sentimenti di rottura com plementare: mi sento impotente, spinta a difendere la mia realtà e l'in tegrità dei miei stessi sentimenti e pensieri, al fine di proteggermi dalla vergogna; parimenti, sento altrettanto timore che questa vergogna mi porterà a incolpare e quindi a distruggere Aliza. Quando Aliza si oppo ne alle mie formulazioni corne troppo intellettuali, mi viene in mente la descrizione di Britten (1988, 1998) su come il precario contenitore ma terno sia minacciato dal pensiero. Tuttavia, non mi sembra di essere il "padre" che irrompe nella diade materna precedentemente contenitiva, ma piuttosto una che le sottrae sanità mentale e le nega la sua sogget tività in modo terrificante - questo rappresenta l"'innocenza violenta" (Ballas, 1992, p. 159) della madre di Aliza, dissociata e rinnegata, che ha risposto a qualsiasi sua crisi o necessità con caos e impermeabilità. E’ questa madre che nessuno di noi puo tollerare di dover essere. La nostra dualità complementare è una danza in cui ognuna di noi cerca di evitare di essere lei - entrambe ci sentiamo sottomesse e rifiutiamo di essere colei che ha la colpa per aver ferito l'altra.
Allo stesso tempo, per Aliza, il sentimento di colpa è un mio problema; la sua preoccupazione deriva dal fatto che lei si sente letteralmente come se stesse morendo e che questo a me non importa. Comincio a temere che se ne possa andare e che ricapitoliamo, quindi, una lunga storia di rottura delle relazioni d'attaccamento. In accordo con un collega, mi convinco a dirle che quello che vuole che le dia non è sbagliato o esigente, ma che posso non essere capace di darglielo. In quella circostanza, mi sorprendo di me stessa. Mi sono preparata per la seduta cercando di accettare sia la perdita di Aliza come una persona a cui tengo sia il mio fallimento corne analista. Penso che il nostro inizio pieno di speranza, quando abbiamo creato una diade profondamente sintonizzata, sia stato nel migliore dei casi oscurato dalla nostra fine. So che entrambe proviamo affetto l'una per l'altra e che posso identificarmi con il dolore che Aliza sta vivendo, oltre che con i miei sentimenti di frustrazione, impotenza e fallimento.
Come programmato, inizio dicendo a Aliza che i suoi bisogni non sono sbagliati, ma che potrei non essere in grado di soddisfarli, e potrei aiutarla a cercare supporta altrove se lo desidera. Mi ritrovo, tuttavia, a dirle spontaneamente anche che non importa cosa faccia perché avrà sempre un posto nel mio cuore; aggiungo anche che non può rompere il nostro legame o distruggere l'affetto che provo per lei. Questa riaffermazione dell'indistruttibilità del mio affetto e la mia volontà di assumermi la responsabilità modificano decisamente la visione che Aliza ha di me. Ma spostano anche la mia ricettività verso di lei perché, paradossalmente, la mia accettazione della mia incapacità di trovare una soluzione allevia il mio senso impotenza. Mi permette di ritornare all'impegno analitico non di "fare" qualcosa, ma piuttosto di contattare la mia profonda connessione con lei. Di rimando, Aliza recupera la sua connessione con me e sente cosa significa, per entrambe, la perdita del mio valore per lei. Questo cambiamento ci permette di aprire la porta agli stati di terrore e solitudine dissociati che la paziente ha sentito che non potevo sopportare con lei; Aliza recupera anche ricordi e scene d'infanzia che non abbiamo mai raggiunto prima. Tuttavia, siamo ancora ossessionate dallo spettro della madre distruttrice e, dopo un periodo in cui la riviviamo intensamente, Aliza dice che non riguadagnerà mai completamente la sua fiducia in me. Sceglie di andarsene per proteggere la nostra relazione, un Terzo che non puo immaginare sarebbe sopravvissuto.
Poco dopo gli attacchi terroristici dell'll settembre 2001, Aliza ritorna per un certo numero di sedute, avendo lavorato nel frattempo con un altro terapeuta. Mi dice che è diventata consapevole della rabbia e del sentimento di essere circondata da altre persane che rifiutano di riconoscere la loro relazione con il disastro. Credendo che stia commentando la mia relazione con lei e collegando questo al modo in cui mi ha vissuta in passato le dico:
Qualunque cosa dicessi mi sembrava un modo per prendere le distanze, un' altra esperienza di facce spente della sua famiglia. Quando il disastro ha colpito, hanno agito come se nulla di brutto fosse accaduto. Ogni volta che le dicevo qualcosa che vedevo, non ero io che stavo reagendo soggettivamente allo stesso disastro come lei, ero io che vedevo qualcosa di vergognoso nell'intensità della sua reazione.
Aliza allora mi parla della colpa per avermi "maltrattata", e le rispondo che a quel tempo era turbata da questo, ma non ha potuto fare a meno di farlo. Dice che mi ha "ingannata" carpendo interpretazioni e spiegazioni da me che sembravano distanzianti e l''avevano fatta tanto arrabbiare. Allo stesso modo, mi chiedeva spesso di dirle quello che sentivo, ma si arrabbiava se Io facevo perché allora riguardava "me".
Riconosco che, essendo coinvolta in queste interazioni, spesso mi sono sentita molto male e ho avuto la sensazione di star fallendo. Dico che, a mio avviso, quello che è importante è che, nonostante sapesse che questo stava accadendo, se si permetteva di riconoscere che una qualche responsabilità era anche sua sentiva di doverne accettare il peso, tutta la colpa - una situazione in cui "chi perde si fa carico di tutto". Questo mi sembra legato al motivo per cui se n'è andata. Le chiedo se sente che anche io non posso sopportare il peso, cbe qualunque cosa dovessi ammettere per far continuare la nostra relazione sarebbe più di quanta posso sopportare; che non sono disposta a farlo per non farla diventare pazza. Suggerisco: "Non può contare su di me da preoccuparsi abbastanza della sua sanità mentale per darsi la colpa".
Aliza risponde: "Si, l'ho vista come il genitore che non lo farà, che piuttosto sacrifica il bambino". Consideriamo come ogni sforzo che ho fatto per riconoscere il mio ruolo nella nostra interazione è stato contaminato dal fatto che Aliza ha sentito che le è stato richiesto di rassicurare l'altro. E’ sicura di dover sopportare l'insopportabile per sua madre (o per un altro), fornendo rassicurazioni del fatto che fosse "buona" per lei. Sembra non ci sia stato modo per me di assumermi la responsabilità senza pretendere l’assoluzione - i limiti di ogni forma di disclosure o riconoscimento diventano, dunque, chiari a entrambe.
Nelle sedute successive esplicitiamo questa impossibilità quando arriviamo a un ritratto drammatico del modo di comportarsi della madre di Aliza durante gli orribili eventi accaduti durante la sua prima infanzia. Riesco a dire quello che non è stato possibile dire prima: quanta è incredibilmente doloroso per Aliza sentire che nel presente, con sua figlia, in qualche modo si comporta come sua madre. Ma allo stesso modo è impossibile per me sopportare il peso di essere quella madre, perché allora rappresenterei una terribile minaccia per lei.
Aliza risponde a questa descrizione del suo dilemma riconoscendo con sorpresa quanta sia vero, e anche quanta mi abbia impedito di fa re qualunque cosa per comprenderlo. E’ sbalordita dal fatto che sono riuscita a tollerare di trovarmi in una situazione cosi spaventosa con lei. Ancora una volta, le ribadisco quanta io sia triste per non essere riuscita a evitare di farla sentire in compagnia di una madre pericolosa che nega ciò che sta facendo. Spontaneamente Aliza realizza che deve, a tutti i costi, assumersi il peso di avere dentro di sé una madre che distrugge la sua sanità mentale. E’ profondamente dispiaciuta per quanta sia stato difficile per me rimanere con lei in quel momento.
In realtà, la sua risposta è così intensa che per un momento mi preoccupo: la sto forzando? Tuttavia, quando toma dopo una pausa estiva di due mesi e per tutto l'anno seguente, Aliza parla di come si sente trasformata, molto più forte dopo quella seduta, che spesso si meraviglia di se stessa e si chiede se sia la stessa persona. Ora ha fatto esperienza del suo amore che sopravvive alla distruttività della nostra interazione, ai miei errori e ai miei limiti. Mentre il processo di guardare indietro e riparare insieme continua, io e Aliza ricreiamo una modalità precoce di adattamento, che fa entrare in gioco le nostre precedenti esperienze di essere in armonia. Riesce a reintegrare esperienze di venerazione e bellezza in cui la mia presenza evoca il suo amore infantile per il volto di sua madre, l'estasi e la gioia che abbiamo confermato con il suo senso della mia e della sua bontà interiore. Abbiamo creato una terzietà, un dialogo simmetrico, in cui ognuna di noi risponde da una posizione di perdono e generosità, creando un posto sicuro tra noi e in ciascuna delle nostre menti per assumercene la responsabilità. La trasformazione del nostro Terzo condiviso permette a entrambe di trascendere la vergogna, di attraversare la disillusione e di accettare i limiti della mia soggettività analitica.
Aggiungo queste uleriori riflessioni esplicative dell'esperienza narrata sopra (pp. 65-67)
Spero che questa vignetta sia abbastanza evocativa della complessità di un tale processo di trasformazione condivisa da rendere evidenti i rischi e le possibilità di questo lavoro. Ho cercato di chiarire che la disclosure non è un rimedio, che il riconoscimento della responsabilità dell'analista può avvenire solo elaborando l’angoscia profonda intorno ai sentimenti di distruttività e perdita.
Il concetto di Terzo morale è quindi collegato all’accettazione di un’inevitabile rottura e riparazione, che ci consente di situare la nostra responsabilità nei confronti dei nostri pazienti e del processo nel contesto di una compassione che è anche testimonianza. Questo concetto mi sembra intrinseco all’abbracciare la necessità intersoggettiva, l’imperativo relazionale di partecipare a un'interazione a doppio senso. Se il coinvolgimento nell’interazione non può essere evitato, è tanto più necessario essere orientati a determinati principi di responsabilità. Questo è ciò che intendo per Terzo morale: l’accettazione (si spera all'interno della nostra comunità) di certi principi come fondamento per la terzietà analitica- un atteggiamento nei confronti dell'interazione in cui gli analisti affrontano onestamente i sentimenti di vergogna, inadeguatezza e colpevolezza che gli enactment e le impasse suscitano. In questo senso, la resa dell’analista significa accettare la necessità di essere coinvolti in un processo che spesso è al di fuori del nostro controllo e della nostra comprensione-quindi, c’è una necessità intrinseca di questa resa; non proviene da una richiesta o un'esigenza del!' altro. Questo principio di necessità diventa il nostro Terzo in un processo che possiamo modellare attivamente solo secondo certe forme "giuste", nella misura in cui anche noi ci allineiamo e adattiamo all'altro.
Negli ultimi decenni, l’approccio relazionale o intersoggettivo si è mosso verso il rovesciamento della vecchia ortodossia che si opponeva agli sforzi di usare la nostra stessa soggettività con le teorie dell'azione unidirezionale e delle menti incapsulate. E’ ora necessario concentrarsi maggiormente su come progettare e affinare l'uso della soggettività analitica delineandone i contorni nel contesto di una disciplina praticabile.
Come sostiene Mitchell (1997), la trasformazione si verifica quando l’analista smette di provare a essere all’altezza di una generica soluzione incontaminata e trova invece la soluzione personalizzata per un particolare
paziente. Questo è l’approccio che funziona perché, come afferma Goldner (2003), rivela "la trasparenza del processo che l’analista compie nel suo lavoro[ ... ] la sua autentica lotta tra la necessità della disciplina analitica e il bisogno di autenticità" (p. 143). Quindi, il paziente vede nell'analista una visione di cosa significa lottare internamente in modo terapeutico. Il paziente ha bisogno di vedere i propri sforzi riflessi nella soggettività simile ma diversa dell’analista, che, come la risposta intermodale al bambino, costituisce una traduzione o una digestione metabolizzante.
Il paziente verifica se l’analista sta veramente metabolizzando o semplicemente riposando su terzi interiorizzati, contenuti superegoici, massime analitiche.
Ho sperimentato un esempio particolarmente drammatico di questa necessità di contatto e di essere rispecchiata dalle risposte soggettive autentiche dell’analista con una paziente le cui esperienze altamente dissociate degli attacchi omicidi dei suoi genitori si sono materializzate come minaccia di morte nei miei confronti. Dopo che le ho detto che c'erano certe cose che non poteva assolutamente fare affinché entrambe fossimo al sicuro nel processo analitico, mi ha lasciato un messaggio telefonico che diceva che in realtà voleva che io la mettessi di fronte a dei limiti, poiché non le era mai accaduto prima. Stava cercando a tutti gli effetti il Terzo simbolico, quello che Lacan (1975) ha visto come la parola che ci impedisce di uccidere. Questo Terzo doveva essere sostenuto da una dimostrazione del fatto che potevo partecipare emotivamente, cioè potevo identificarmi con la sua sensazione di assoluto terrore e sopravvivere.
Nel suo messaggio la paziente aggiungeva che aveva bisogno che io sentissi davvero di fare questo e non, invece, che lo facessi semplicemente per aderire a delle regole terapeutiche. Mi sono resa conto che questo implicava agire come una persona reale, secondo il mio modo soggettivo di relazionarmi alle regole e ai limiti. E questo doveva avvenire chiaramente sulla base di un confronto personale con la realtà del terrore e degli abusi, non di una loro negazione dissociativa. Aveva bisogno di sentire che il Terzo non proveniva da un’impersonale identità professionale o da una dipendenza dall'autorità, come aveva sentito nella chiesa in cui era stata cresciuta, ma dalla mia relazione personale con il Terzo, la mia fede in ciò che è giusto. A quel tempo sentivo quanto la mia impresa fosse precaria, e quanto grande il rischio della fiducia riposta in me: potevo davvero raggiungere me stessa così in profondità ed essere sincera abbastanza da essere all’altezza di questa fiducia?
Tutti i pazienti, a modo loro, ripongono le speranze per il processo terapeutico in noi, e per ognuno di loro dobbiamo usare la nostra soggettività in un modo diverso per affrontare una soluzione specifica. Ma questa specificità e l’autenticità su cui si basa non possono essere create in caduta libera. Il lavoro analitico condotto secondo la visione intersoggettiva di due soggettività che prendono parte all'interazione richiede una disciplina orientata alle condizioni strutturali della terzietà. Spero che questa prospettiva clinica ed evolutiva sulla terzietà intersoggettiva co-creata sia d'aiuto per orientarci verso la responsabilità e un pensiero più rigoroso. Spero anche che la nostra pratica analitica diventi emotivamente più autentica, più spontanea e creativa, più compassionevole e liberi sia i nostri pazienti sia noi stessi.