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Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Editori Laterza, Bari 2012, euro 15,00 

Non si può fare a meno del reale, del suo starci di fronte e non essere disponibile a negoziare.

Sia quello che sia, ci renda felici o infelici, è qualcosa che resiste e che insiste, ora e sempre, come un fatto che non sopporta di essere ridotto a interpretazione, come un reale che non ha voglia di svaporare in reality.

A mio giudizio è opportuno leggere questo libro assieme a P. Sequeri, Contro gli idoli postmoderni (che ho recensito su questo sito in Recensioni - Libri - Coscienza degli italiani) di cui è idealmente il corrispettivo laico.

La seconda di copertina

Il nuovo realismo è anzitutto la presa d’atto di un cambio di stagione. L’esperienza storica dei populismi mediatici, delle guerre post 11 settembre e della recente crisi economica ha portato una pesantissima smentita dei due dogmi centrali del postmoderno: l’idea che la realtà sia socialmente costruita e infinitamente manipolabile, e che la verità e l’oggettività siano nozioni inutili. Le necessità reali, le vite e le morti reali, che non sopportano di essere ridotte a interpretazioni, sono tornate a far valere i loro diritti.

Quello che ora è necessario non è tanto una nuova teoria della realtà (Né meno che mai una ‘teoria della realtà nuova’, che suona minacciosa anche solo a leggerla), quanto piuttosto un lavoro che sappia distinguere, con pazienza e caso per caso, che cosa è naturale e cosa è culturale, che cosa è costruito e cosa no. E’ qui che si aprono le grandi sfide, etiche e politiche, e si disegna un nuovo spazio per la filosofia. E’ questo il senso di queste pagine, sintesi del lavoro degli ultimi vent’anni di Ferrarsi, nelle quali la critica del postmoderno è solo una premessa necessaria. E’ questo, soprattutto, il senso di una grande trasformazione che – a livello mondiale – ha investito la filosofia, portandola fuori dai vicoli ciechi che nel secolo scorso hanno indotto molti a parlare della sua fine.

 

Nel Prologo Ferraris presenta così il suo percorso filosofico:

«L’elaborazione del realismo è infatti stata il filo conduttore del mio lavoro filosofico dopo la svolta che, all’inizio degli anni Novanta dello scorso secolo, mi ha portato ad abbandonare l’ermeneutica, per proporre una estetica come teoria della sensibilità, una ontologia naturale come teoria della in emendabilità e infine una ontologia sociale come una teoria della documentabilità. Per me il richiamo al realismo non ha dunque significato vantare un risibile monopolio del reale, non troppo diverso dalla pretesa di privatizzare l’acqua. E’ stato piuttosto sostenere che l’acqua non è socialmente costruita; che la sacrosanta vocazione decostruttiva che sta al cuore di ogni filosofia degna di questo nome deve misurarsi con la realtà, altrimenti il gioco è futile; e che ogni decostruzione senza ricostruzione è irresponsabilità».

Il realismo possiede «delle implicazioni non semplicemente conoscitive, ma etiche e politiche».

Il filosofo riconosce che questa svolta si è originata nell’Occidente e non è nemmeno pensabile, per esempio, in Cina o in India, e che dunque la sua è una visione limitata geograficamente.

 

Realitysmo. L’attacco postmoderno alla realtà

Ferraris denuncia la crisi del postmoderno a partire non tanto dalla frase di Nietzsche: «Dio è morto», ma in quella più impegnativa nei confronti della realtà: «Non ci sono fatti, solo interpretazioni» (Frammenti postumi, 1885-1887, 7[60]).

Il compimento del postmoderno, tuttavia, non ha dato gli esiti voluti:

Il “divenir favola” del “mondo vero” non c’è stato, non si è vista la liberazione dai vincoli di una realtà troppo monolitica, compatta, perentoria, una moltiplicazione e decostruzione delle prospettive che sembrava riprodurre, nel mondo sociale, la moltiplicazione e la radicale liberalizzazione (si credeva negli anni Settanta del secolo scorso) dei canali televisivi.

L’esito è stato un populismo mediatico, che – con quello che purtroppo è un fatto, non una interpretazione – ha mostrato il suo significato autentico: “La ragione del più forte è sempre la migliore”.

Ciò che hanno sognato i postmoderni, lo hanno realizzato i populisti, e nel passaggio dal sogno alla realtà si è capito davvero di che cosa si trattava.

Proprio per questo vale anzitutto la pena di esaminare più da vicino l’utopia realizzata e capovolta di sintetizzare la koiné postmoderna:

- l’ironizzazione, secondo cui prendere sul serio le teorie sia indice di una forma di dogmatismo, e si debba mantenere nei confronti delle proprie affermazioni un distacco ironico, talora manifestato tipograficamente (e testualmente, agitando l’indice e il medio di ambo le mani, nei discorsi orali) dall’uso delle virgolette

- la desublimazione, cioè l’idea che il desiderio costituisca in quanto tale una forma di emancipazione, poiché la ragione e l’intelletto sono forme di dominio, e la liberazione va inseguita sulla pista dei sentimenti e del corpo, i quali costituirebbero di per sé una riserva rivoluzionaria

- la deoggettivazione, ossia l’assunto – di cui si vedrà nel corso di questo libro, la rovinosa centralità – secondo cui non ci sono fatti, solo interpretazioni, e il suo corollario per cui la solidarietà amichevole deve prevalere sull’oggettività indifferente e violenta.

Dopo una breve e sintetica carrellata storica sullo sviluppo della filosofia che ha portato al postmoderno e al suo abbandono (si spera) oggi, Ferraris propone una sintesi dei tre capitoli successivi del suo libro con la sua «personale concezione del realismo» in tre parole: «Ontologia, Critica, Illuminismo, che vogliono reagire ad altrettante fallacie del postmoderno, la fallacia dell’essere-sapere, la fallacia dell’accertare-accettare, e la fallacia del sapere-potere».

Ontologia significa semplicemente: il mondo ha le sue leggi, e le fa rispettare, cioè non è la docile colonia su cui si esercita l'azione costruttiva degli schemi concettuali. L'er­rore dei postmoderni, qui, poggiava sulla fallacia dell'esse­re-sapere, cioè sulla confusione tra ontologia ed epistemologia, tra quello che c'è e quello che sappiamo a proposito di quello che c'è. È chiaro che per sapere che l'acqua è H20 ho bisogno di linguaggio, di schemi e di categorie. Ma che l'acqua sia H20 è del tutto indipendente da ogni mia co­noscenza, tant'è che l'acqua era H20 anche prima della na­scita della chimica, e lo sarebbe se tutti noi scomparissimo dalla faccia della terra. Soprattutto, per quanto riguarda l'esperienza non scientifica, l'acqua bagna e il fuoco scotta sia che io lo sappia sia che io non lo sappia, indipendente­mente da linguaggi, schemi e categorie. A un certo punto c'è qualcosa che ci resiste. È quello che chiamo "inemenda­bilità", il carattere saliente del reale. Che può essere certo una limitazione ma che, al tempo stesso, ci fornisce proprio quel punto d'appoggio che permette di distinguere il sogno dalla realtà e la scienza dalla magia. Proprio per questo ho intitolato "Realismo" il capitolo che tratta della ontologia.

Critica, poi, significa questo. Con quella che definisco "fallacia dell'accertare-accettare" i postmoderni assume­vano che l'accertamento della realtà consista nell'accetta­zione dello stato di cose esistente, e che, reciprocamente (sia pure con un salto logico), l'irrealismo e il cuore oltre l'ostacolo siano di per sé emancipatori. Ma chiaramente non è così. Il realismo è la premessa della critica, mentre all'irrealismo è connaturata l'acquiescenza, la favola che si racconta ai bambini perché prendano sonno. Baudelaire aveva osservato che un dandy avrebbe potuto parlare alla folla solo per sbeffeggiarla. Figuriamoci un irrealista, incapace, per le sue stesse teorie, di stabilire se sta davvero trasformando se stesso e il mondo, o se viceversa sta sem­plicemente immaginando o sognando di fare qualcosa del genere. Al realista è invece aperta la possibilità di criticare (purché lo voglia) e di trasformare (purché lo possa), in forza dello stesso banale motivo per cui la diagnosi è la premessa della terapia. E poiché ogni decostruzione fine a se stessa è irresponsabilità, ho deciso di intitolare il terzo capitolo "Ricostruzione".

Veniamo, infine, all'Illuminismo. La storia recente ha confermato la diagnosi di Habermas che trent'anni fa ve­deva nel postmodernismo un'ondata anti-illuminista, che trova la sua legittimazione in quella che definisco "fallacia del sapere-potere", secondo cui in ogni forma di sapere si nasconde un potere vissuto come negativo, sicché il sape­re, invece di legarsi prioritariamente alla emancipazione, si presenta come uno strumento di asservimento. Questo antí-illuminismo è il cuore di tenebra del moderno, il ri­fiuto dell'idea di progresso e della fiducia nel nesso tra sapere ed emancipazione, in grandi pensatori come de Maistre, Donoso Cortés, Nietzsche, e si sintetizza nell'i­dea di Baudelaire secondo cui "Trono e altare" è una mas­sima rivoluzionaria. È a loro che l'arco postmoderno-populismo sembra aver dato ragione. Per uscire da questa ombra profonda, per ottenere quella "Emancipazione" che dà il titolo all'ultimo capitolo, sarà dunque necessario l'Illuminismo che, come diceva Kant, è «osare sapere» e segna l'uscita dell'uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso». E che richiede ancora oggi una scelta di campo, una fiducia nell'umanità, che non è una razza caduta e bisognosa di redenzione, ma una specie animale che si evolve e che nel suo progresso si è dotata di ragione.

 

A conclusione della sua riflessione, Ferraris enuncia la sua tesi: 

Sbagliando si impara, o altri imparano. Dire addio alla verità è non solo un dono senza controdono che si fa al “Potere”, ma soprattutto la revoca della sola chance di emancipazione che sia data all’umanità, il realismo, contro l’illusione o il sortilegio. Ecco l’importanza del sapere: la correzione – sempre possibile e dunque doverosa – del «legno storto dell’umanità», il non volersi rassegnare a essere minorenni (indipendentemente dall’età anagrafica), per quanto, come scriveva ancora Kant, sia tanto comodo essere minorenni. Rifiutare l’uscita dell’uomo dall’infanzia, magari con la pretesa di svelare collusioni tra sapere e potere, è certo possibile, ma significa imboccare l’alternativa, sempre aperta, che propone il Grande Inquisitore: prendere la via del miracolo, del mistero e dell’autorità.